C.L. Ho il piacere di intervistare una delle persone più importanti per la mia formazione di psicoterapeuta, un maestro che sa trasmettere saperi complessi in forma semplice, originale e divertente, le sue lezioni e le sue supervisioni lasciano una traccia indelebile perché impongono una rivoluzione copernicana dell’assetto mentale e insegnano a farsi domande scomode.

Innovativo nel pensiero, rigoroso nel ragionamento clinico, dall’ironia effervescente come uno spritz, l’apparenza affabile non vi inganni: i suoi commenti sono più taglienti di un bisturi.

R.L. Grazie Cecilia ma dobbiamo rinegoziare la tariffa che pretendi per ogni aggettivo positivo, è un momento di crisi e sono un pensionato.

C.L. Non dategli retta. Signore e Signori …

ROBERTO LORENZINIIIII

C.L. Benvenuto nel nostro sito, Roberto! È un onore ospitarti! Come stai?

R.L. Molto divertito all’idea di rispondere alla tua intervista e rassicurato dal fatto che sia scritta, non si vede l’imbarazzo e posso cercare su wikipedia prima di dire bischerate. Più in generale direi che non mi posso lamentare.

C.L. Roberto Lorenzini presenta Roberto Lorenzini

R.L. Di origine maremmana è cresciuto a Roma, appassionato di matematica si è laureato in medicina perché allora credeva, errando, che fosse la strada migliore per occuparsi della sofferenza mentale. Le esperienze più importanti della sua vita sono state lo scoutismo da lupetto a responsabile nazionale, e il lavoro nel servizio sanitario nazionale nel dipartimento di salute mentale di Viterbo da precario a direttore, dove ha incontrato la seconda grande passione della sua vita, ovvero i folli. L’altra l’aveva incontrata sintetizzata in una sua rappresentante di nome Luana a 12 anni sul Monte Amiata. Entrambe le passioni perdurano nonostante l’età e gli acciacchi.

C.L. Cosa ti ha portato ad interessarti di sofferenza mentale?

R.L. Da adolescente sono stato intrigato dalla visione pansessualistica di Freud che corrispondeva esattamente alla mia di allora e decisi di fare lo psicologo, ma quando fu il tempo di iscrivermi all’università la facoltà di psicologia a Roma aveva appena aperto, le mie ansie abbandoniche non mi facevano neanche prendere in considerazione l’ipotesi di lasciare Roma e la gente ivi contenuta e dunque mi iscrissi a medicina traversandola tutta mantenendo inalterato il disinteresse per tale materia e la consapevolezza di non essere in grado di fare il medico: credevo di poter fare solo lo psicologo perché mi sembrava non dovesse saper far niente.

C.L. Sul non dover saper far niente ti sei poi ricreduto?

R.L. Non mi sono ricreduto perché mi sembra che effettivamente il problema non sia fare qualcosa, ma essere accogliente e compassionevole con tutte le miserie che comporta appartenere al genere umano perché le si riconoscono in sé, permettendo così al paziente di vederle nello specchio del terapeuta e di aggiustarle un po’ e accettarle per il resto.

C.L. Perché proprio cognitivista? Ai tuoi tempi non andava di moda la psicoanalisi?

Come io sia arrivato alla psicoterapia cognitiva è dovuto a mille concause, come tutto nella vita. Scelte, il caso, incontri fortuiti con persone. Il mio iniziale interesse era per la matematica che mi piaceva da morire e in cui ero davvero bravo, ma pensai che non potevo passare la vita a giocare e dovevo fare qualcosa di utile. Come accennavo prima, il mio interesse per il funzionamento della mente nacque intorno ai sedici anni quando mi imbattei nell’introduzione alla psicoanalisi di Sigmund Freud. Allora trovai, da adolescente, affascinante una teoria omnicomprensiva che riusciva a spiegare tutto: dai lapsus, ai sogni, alle opere d’arte, al disagio della civiltà, e poi affermava che il mondo fosse mosso dalla sessualità, il che corrispondeva esattamente alla mia situazione del tempo. Molto più tardi capii che quello che ritenevo un pregio inestimabile, vale a dire il riuscire a spiegare tutto a posteriori, ma a prevedere ben poco, era il peggior difetto della teoria psicoanalitica e che ciò la rendeva strutturalmente molto simile alle produzioni di quei pazienti che più di tutto mi hanno interessato, vale a dire i deliranti, che ignorano il dubbio e per i quali tutto è chiaro e tutto torna.

Così come l’incontro con Freud nell’edicola di una stazioncina del cagliaritano fu del tutto causale, altrettanto casuale fu l’incontro con Francesco Mancini, Sandra Sassaroli e Antonio Semerari quando, all’ultimo anno della scuola di specializzazione in psichiatria, assediato dagli psicoanalisti, stavo seriamente meditando di riconvertirmi in ortopedico o anatomopatologo. L’effetto fu anche in questo caso una sorta di “Eureka!” delirante: finalmente capivo. D’improvviso mi si erano aperti gli occhi e quello che questi tre signori dicevano poteva trovarmi d’accordo o meno ma soprattutto mi era chiaro. Come dicono ancora oggi molti allievi dei primi anni “sentivo che mi corrispondeva”.

C’è voluto molto più tempo perché riuscissi ad apprezzare l’eleganza di molti modelli teorici dei disturbi e a sperimentare l’efficacia delle strategie terapeutiche utilizzabili. Quello che però  è stata nel mio caso il motivo del colpo di fulmine è stata la semplicità del modello teorico di base su cui tutto l’edificio è costruito: “il modello scopi- credenze- emozioni”.

Questa vincente semplicità mi sono convinto nel tempo non essere riferita soltanto a me ed anzi ho scoperto nei 30 anni di lavoro nel servizio pubblico che rappresenta una sorta di esperanto, di linguaggio trasversale che riesce, non a mettere d’accordo, ma perlomeno a far comunicare cognitivisti, sistemici, psicoanalisti, antipsichiatri e più o meno tutte le varie fazioni e gruppuscoli armati che popolano i servizi di salute mentale. Ho scoperto anche che è un linguaggio comprensibile ai pazienti, anche quelli più gravi, ai familiari che riescono a darsi ragione del comportamento dei loro cari e agli operatori non laureati che  possono così qualificare il loro lavoro. Preso dal furore sacro del modello scopi-credenze e sull’esempio di Di Pietro[1] ho verificato sui miei figli l’assoluta naturalezza con cui i piccoli lo utilizzano e il più delle volte mi sono sentito dire “ma certo papà, è ovvio!” lo sapevano che le cose stavano così prima che glielo spiegassi “E’ ovvio papà che cerchiamo di ottenere ciò che ci piace e che lo facciamo utilizzando le nostre conoscenze su come vanno le cose ed è altrettanto chiaro che siamo contenti se ci riusciamo e tristi se non ci riusciamo, salvo essere preoccupati finché l’esito è incerto”. Da adolescenti sono meno inclini a ricostruire le sequenze ABC[2] e la ribellione verso il padre potrebbe farne degli psicoanalisti.

Naturalmente dopo gli entusiasmi iniziali mi sono reso conto che il modello che mi aveva entusiasmato inizialmente e che continuo a reputare uno strumento formidabile d’intervento, l’ABC, aveva certamente degli aspetti ingenui  e che per spiegare i bizzarri comportamenti osservabili nella psicopatologia occorreva sofisticare le spiegazioni. Allora mi sono dato delle regole:

  1. Erano da preferire sempre le spiegazioni più semplici
  2. Prima di introdurre un nuovo concetto per spiegare una bizzarria psicopatologica bisognava valutare se il normale funzionamento secondo scopi- credenze non fosse sufficiente a spiegarlo.
  3. Il principio introdotto non poteva essere ad hoc e dunque doveva essere applicabile anche a contesti diversi da quello per il quale era stato pensato.
  4. Perché una spiegazione fosse da prendere in considerazione doveva indicare quali fatti concreti avrebbero dimostrato, se verificatisi, che si trattava di una sciocchezza. Insomma cercavo di partire dalle spiegazioni più semplici che anche un uomo o bambino della strada avrebbero formulato, per sofisticarle solo quando strettamente necessario perché insufficienti o francamente fallaci a prevedere, piuttosto che a spiegare (gli storici hanno gioco molto più facile e sono molto più coerenti dei profeti).

A favore della psicologia scopi e credenze c’è da considerare un argomento evoluzionista. Poiché tutti gli umani, tranne in alcune patologie gravi, hanno innata una Theory of Mind (TOM) che spiega e prevede il comportamento degli altri e di sé stessi esattamente con l’attribuzione alla mente di scopi e credenze, c’è da scommettere che essa sia molto efficiente. Se infatti siamo tutti progenie di questi signori che iniziarono a immaginare che le condotte fossero orientate ad un fine e regolate dalle idee che uno aveva sul funzionamento del mondo, possiamo ipotizzare che ragionare in questo modo allunghi la vita e consenta un buon successo riproduttivo. 

C.L. Sei un punto di riferimento per pazienti, allievi, colleghi. Tante persone si sentono in debito con te per quello che hai insegnato e/o perché hai avviato in loro un processo di guarigione. Hai l’aria di non volertene mai prendere pieno merito, allora ti chiedo, pensando così di metterti più a tuo agio: ti è mai capitato di ascoltare una tua citazione, giudicata dal tuo interlocutore determinante per la propria vita, e desiderare ardentemente ritrattarla?

R.L. Succede spesso che pazienti o ex allievi mi ricordino mie frasi per loro decisive. In genere si sbagliano: non le ho affatto dette e nemmeno pensate, evidentemente se le sono dette da soli e per questo hanno funzionato. Capita più spesso che mi batto per mesi su un concetto tipo “ridurre l’importanza del giudizio altrui” e non si muove una foglia. Poi un giorno il paziente arriva e mi dice che un articolo di Natalia Aspesi sul Venerdì di Repubblica gli ha cambiato la vita perché diceva di non curarsi di ciò che gli altri pensano di noi. Gli darei volentieri una testata sul naso ma il codice deontologico vede male questo tipo di interventi.

C.L. Nel campo del sapere psicologico cosa sarebbe utile che venisse divulgato ad ampio raggio in modo da diventare patrimonio dell’umanità? Per promuovere la salute mentale quali insegnamenti dovrebbero essere impartiti al pari della scrittura e della lettura o quali abilità andrebbero sviluppate in ogni bambino e ogni bambina?

R.L. Una teoria della mente che sin da piccoli aiuti a sviluppare tutti gli aspetti della meta cognizione ed una psicoeducazione sulle emozioni.

 

C.L. La relazione terapeuta paziente è uno scambio e un arricchimento per ambo le parti. Quale paziente ha cambiato il tuo modo di operare? In che modo?

Simona Liberatore da Barletta via fratelli Rosselli 38 tel 339804337 di anni 38 con disturbo Doc su personalità dipendente, dalla quale ho capito che bisognava adottare tecniche, quelle della cosiddetta terza ondata, che agissero direttamente sui livelli cerebrali bassi facendo a meno di un impegno attivo della neocortex. Ciò mi ha spinto a far corsi e studiarle ma resto una capra spaventata da tutto ciò che non sia un freddo e distaccato ragionamento astratto (l’avevo detto che volevo fare matematica) e implichi emozioni, rilassamento, meditazione e, Dio ce ne scampi, pure il corpo.

C.L. Senti, prova ogni tanto a fare la persona seria.

R.L. Ci provo. Allora, direi che in ogni paziente vedo un pezzetto di me, davvero è rarissimo che mi capiti di pensare “ no, io sono proprio diverso”, mi sembra di condividere tutto solo che in loro spesso è esagerato e caricaturale e mi serve di monito per trattenermi. Io reggo lo specchio per loro, ma loro lo reggono per me e vediamo immagini che si sovrappongono sempre più piccole.

C.L. “Errare humanum est” è il titolo di uno dei tuoi libri: è inevitabile fare errori nel nostro, come in tutti i mestieri e, da supervisore quale sei, hai un’ampia panoramica sul lavoro di tanti colleghi. Quali sono gli errori più comuni in psicoterapia? E quelli più gravi?

R.L. Sopravvalutare nel bene e nel male l’importanza del nostro intervento che è solo una minima parte delle perturbazioni che arrivano sul paziente e lo cambiano: è la vita la principale terapeuta. Prendersela coi pazienti perché non guariscono danneggiando appunto la nostra onnipotenza

C.L. Cosa un paziente dovrebbe perdonare al proprio terapeuta?

In generale, come ai suoi genitori di essere una persona piena di limiti e non onnipotente, e quello che il terapeuta stesso non si perdona. Nello specifico di non capirlo perfettamente, di essere un altro.

C.L. Cosa un terapeuta dovrebbe perdonare al proprio paziente?

Di non migliorare come lui, per i suoi sforzi, si aspetterebbe.

C.L. Come si dovrebbero intitolare i capitoli che secondo te mancano ai manuali di psicoterapia?

R.L.

  • Una rilettura dimensionale e non categoriale della nosografia
  • La psicoterapia seria del disturbo bipolare
  • Quando e come la psicoterapia fa male
  • Come si cambia e si guarisce senza la psicoterapia
  • Cosa di piacevole fare quando non si è impegnai a molestare i pazienti
  • Un elenco di possibili “sensi della vita”.

C.L. In quale libro non attinente all’ambito psicologico hai trovato gli spunti più interessanti per il tuo lavoro?

R.L. Senza dubbio tutta l’opera di Popper e degli epistemologi in genere (Kuhn, Lakatos, ecc.) e, di recente, Carlo Rovelli “ 7 lezioni di fisica”.

C.L. Nella vita quotidiana in cosa consistono i benefici e anche quale consideri la trappola dell’essere uno psichiatra e psicoterapeuta (a parte dover ascoltare cose del tipo “allora mi stai psicoanalizzando!”, “Lo sai che ieri sera ho sognato che…”, “io quando sfoglio una rivista comincio dall’ultima pagina, che cosa vuole dire?”)?

R.L. È vantaggiosa la fama di persona profonda, attenta e introspettiva che fa sì che mentre stai zitto a pensare per i fatti tuoi, al profilo straordinario della collega che hai reincontrato al congresso, alla formazione che scenderà in campo stasera contro l’Inter, o stai ultimando i rituali mentali che ti rassicurano sul buon esito di quella vicenda che hai tanto a cuore, molti pensano che stai riflettendo su serissimi problemi teorici.

Gli svantaggi:la perdita di franchezza da parte degli interlocutori che si chiedono cosa mai potrei pensare se dicono o fanno certe cose, e temono di essere subito incasellati in qualche diagnosi, cosa che non faccio neanche con i pazienti perché ognuno è assolutamente unico e originale, e poi figuriamoci se lavoro gratis e fuori orario.

C.L. L’Italia è il paese europeo con il maggior numero di psicologi, molti disoccupati o sottoccupati, mentre la psicoterapia rimane un privilegio di pochi. Tra servizio pubblico e privato quali soluzioni potrebbero essere adottate per far incontrare domanda e offerta di aiuto?

R.L. Quelli in formazione e i giovani hanno una gran voglia di fare esperienza e devono offrire terapie a basso costo, solidali (si sta incominciando a farlo) ed i servizi pubblici, che adoro ma non hanno le risorse per fare tutto, devono inviarli a loro e garantire solo una supervisione periodica.

C.L. Medice cura te ipsum. Se tu ti avessi in psicoterapia cosa ti diresti?

R.L. Cara Cecilia, ho l’impressione che i problemi più gravi sono proprio quelli di cui non mi rendo conto per cui li definiresti meglio tu che io, se non fossi presa dal bias secondo cui uno che fa questo lavoro è più o meno sano, mentre è vero assolutamente l’inverso, e non perché a frequentar matti lo si diventa, ma ci si parte proprio.

C.L. Caro Roberto, avrò pure una marea di bias, ma ho ben presente, anche per esperienza diretta e introspettiva, che noi psic…qualcosa proprio tutti interi non siamo. Dove andremo a finire? (scientificamente parlando)

R.L. Il domani è nella direzione opposta a quella perseguita nel ‘900 con la separazione tra neurologia e psichiatria che ci parve una grande conquista. Il futuro è nelle neuroscienze che sono sempre più umanistiche. Questi meravigliosi giovani che escono oggi dalle università leggeranno i nostri libri come trattati di archeologia. Temo che bisognerà per forza occuparsi del corpo. Quasi quasi se rinasco faccio medicina.

C.L. Scrivi spaziando da libri e articoli scientifici alla narrativa, la tua consulenza scientifica e il tuo talento nella scrittura ultimamente hanno contribuito alla sceneggiatura dell’ultimo film di Paolo Virzì “La pazza gioia”, tra poco in uscita nelle sale cinematografiche. Come è stata per te questa esperienza?

R.L. Imbarazzante, mi sentivo come sempre un abusivo e poi mi sono sentito un gran fico, premessa per essere voluto bene, mio scopo terminale e interminabile. Ora sta a Cannes per l’anteprima poi, se vorrai, quando starà per uscire i primi di maggio, ti scrivo una recensione in esclusiva per il vostro sito.

C.L. Sarebbe molto bello! Consideralo un impegno già preso.

A cosa stai lavorando ultimamente?

R.L. Un progetto per una terapia modulare che superi i protocolli. Una nosografia dimensionale. Il fanatismo. La risistemazione della casetta al mare.

 

C.L. Grazie di cuore per la disponibilità e il tempo che ci hai dedicato! È stato un grande piacere e avrei ancora tante domande da farti, mi sa che ti ri-invito presto…

R.L. Ringrazio voi per avermi ospitato riattivando i ricordi di bellissimi anni passati a discutere con tanti allievi nella sede di via Lanza che, allora, stavamo faticosamente arredando e aspetto un incontro dal vivo perché senza stimoli la mente si addormenta.

C.L. Attento che ti prendiamo in parola!

Di seguito l’autopresentazione ufficiale dell’intervistato

Dott. Roberto Lorenzini

Psichiatra e psicoterapeuta, didatta SPC, APC, del centro Italiano di sessuologia e di Studi cognitivi e soprattutto capo squadriglia degli scoiattoli ed ex direttore del dipartimento di salute mentale di Viterbo. Autore di un sacco di roba di cui si poteva benissimo fare a meno tra cui più cari a me per motivi storico affettivi:

  1. Lorenzini, S.Sassaroli -1987-“La paura della paura:riconoscere e curare le proprie fobie” La nuova Italia Scientifica, Roma
  2. Lorenzini, S.Sassaroli- 1991- “Quando la paura diventa malattia : come riconoscere e curare le proprie fobie” Ed. Paoline, Milano
  3. Fenelli , R.Lorenzini -1991 – “Clinica delle disfunzioni sessuali” La Nuova Italia Scientifica, Roma
  4. Lorenzini, S.Sassaroli -1992 – “Cattivi Pensieri : i disturbi del pensiero schizofrenico, paranoico e ossessivo” La Nuova Italia Scientifica, Roma
  5. Lorenzini, S.Sassaroli -1992 – “La verità privata : il delirio e i deliranti” La Nuova Italia Scientifica , Roma
  6. Lorenzini, S.Sassaroli – 1995 – “Attaccamento , conoscenza e disturbi di personalità” Ed. Raffaello Cortina , Milano
  7. Lorenzini, S.Sassaroli –2000 – “La mente prigioniera: strategie di terapia cognitiva” Ed. Raffaello Cortina, Milano
  8. Sassaroli,R.Lorenzini,G.Ruggiero – 2006 – “La psicoterapia cognitiva dell’ansia” Ed. Raffaello Cortina, Milano
  9. lorenzini, B. Coratti 2008 “La dimensione delirante” Ed. Raffaello Cortina Milano.
  10. Lorenzini, A. Scarinci (a cura di.)- 2010 “Errare “Umanum” est” Ed. Alpes Italia s.r.l. Roma
  11. Lorenzini- 2010 “Psicopatologia generale” La Riflessione Davide Zedda editore Cagliari
  12. Lorenzini -2011 “Il tempo sospeso” Alpes Italia s.r.l. Roma
  13. Lorenzini, B. Coratti.A.Scarinci, A.Segre -2012 “Territori dell’incontro: strumenti psicoterapeutici” Alpes Italia
  14. Lorenzini-2012       Autoterapia del delirio. Ebook, Milano: State of Mind Editore.
  15. Lorenzini, A. Scarinxci 2013 “Dal malessere al benessere” Ed Franco Angeli, Roma 
  16. Lorenzini 2013 “Storie di terapie” Ed. Alpes Roma 
  17. Nov 2013 R. Lorenzini et al. A cura di “Matti Persi, Matti ritrovati” Ed. Cantagalli Siena

 

[1] N.D.R. Mario Di Pietro “L’ABC delle mie emozioni” Ed. Erickson, 2007.

[2] N.D.R. Acronimo per A: antecedent; B: belief; C: consequence. Schema di analisi utilizzato in psicoterapia cognitiva in cui si esplora un vissuto emotivo collegandolo ad un evento esterno o interno e soprattutto ai pensieri o immagini mentali implicati.

(Cecilia Lombardo)

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