Francesca Batacchioli

La maggior parte delle persone conosce il significato simbolico del cibo come gratificazione da dare a sé stessi dopo una pesante giornata di lavoro, come motivo di aggregazione con gli altri o semplicemente come una distrazione o una pausa da attività impegnative. Il cibo costituisce una forma di piacere immediato e facilmente fruibile, non necessariamente collegato al bisogno fisiologico di nutrirsi per vivere. Quando però l’utilizzo consolatorio del cibo diviene un’abitudine, può instaurarsi un meccanismo disfunzionale per il quale l’individuo inizia a ricorrere compulsivamente ad esso come strategia per riempire un vuoto interiore, per placare o sostituire emozioni negative (tristezza, rabbia, ansia, ecc.).

Il grande schermo fornisce alcuni esempi relativi a questo aspetto psicopatologico correlato al comportamento alimentare. Ricordiamo Evelyn Couch, la casalinga grassottella di “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, la quale, insoddisfatta della propria vita matrimoniale e della forma del suo corpo, cede a frequenti spuntini ipercalorici, lasciando naufragare i suoi buoni propositi di seguire una dieta e praticare una regolare attività fisica. A pochi giorni dall’uscita nelle sale di “Bridget Jones’s baby”, non possiamo poi dimenticare poi la simpatica e goffa Mrs Jones dei due capitoli precedenti, che desidera una relazione stabile ed un corpo più snello ma, in seguito ad ogni delusione amorosa, associata al timore di restare zitella, ricade ricorsivamente nelle abbuffate solitarie di cibo spazzatura di fronte alla tv.

In studio ci troviamo non di rado ad occuparci di pazienti che, come Evelyn e Bridget, utilizzano il cibo come modulatore dello stato emotivo:

  • Gloria sta aspettando il marito per recarsi insieme a lui a pranzo dal cugino ma lui è in forte ritardo e non le risponde al telefono. Lei è molto arrabbiata poiché pensa che il suo partner non rispetti gli impegni che prende con lei, si sente agitata, le tremano le gambe, non riesce calmarsi e si ritrova a divorare un pacco di Pavesini che aveva nascosto dietro alcuni barattoli di pomodoro nella dispensa, poi apre il frigo e mangia tutti gli avanzi del giorno prima. Subito dopo si sente delusa da sé stessa poiché non ha saputo resistere a quel cibo e di nuovo ha fallito il suo proposito di seguire un’alimentazione più regolare per ridurre il suo peso.
  • Daniele non ha una relazione sentimentale, ha pochi amici, il suo lavoro al supermercato è stressante e ripetitivo e vive con la madre; nelle ore che trascorre in casa sperimenta un senso di vuoto (noia) che non riesce a sopportare e dice di sentirsi come “attratto dal frigo”; mangia velocemente quello che trova ed si sente felice ed appagato, finché non lo assale un senso di forte pienezza e disgusto. Dice “ho mangiato come un porco e mi faccio schifo”.
  • Federica ha perso la madre più di un anno fa. Lei l’aveva accudita per parecchi mesi nella fase terminale della sua malattia di Alzheimer. Dopo la morte della madre ha iniziato a sentire una “fame infinita” e non riesce a smettere di comprare e mangiare, più volte al giorno in solitudine, biscotti e snack di ogni tipo. Questi sono gli unici momenti in cui si sente sollievo dalla sua disperazione e dal senso di vuoto e solitudine che la dipartita della mamma ha lasciato nella sua vita. Ma ogni sera prima di dormire si guarda allo specchio, disprezza il suo corpo “troppo irrobustito” e si sente sempre più impotente sia di fronte al cibo che ai propri stati d’animo.

Le abbuffate vengono utilizzate da questi pazienti per gratificarsi, per distrarsi dall’esperienza emotiva, o per sedarne l’attivazione fisiologica.  Il sollievo temporaneo che ne consegue rinforza il potere di questa condotta, rendendola una strategia di gestione emotiva sempre più automatica e capace di escludere altre strategie alternative più funzionali. Solitamente al termine dell’abbuffata, passato il momento di benessere in cui il problema emotivo sembra risolto, sopraggiungono sentimenti negativi verso sé stessi (senso di colpa, vergogna, rabbia, ecc.) che producono un’ulteriore flessione dell’autostima e contribuiscono ad alimentare l’idea di non essere capace di regolare le proprie emozioni in modo differente. Oltretutto, purtroppo, alcune volte i sentimenti che hanno innescato l’assunzione del cibo sono ancora lì.

Si utilizza il termine «Emotional eating” (“mangiare per compensazione”) per indicare il fenomeno per cui un individuo, di fronte ad un’emozione che non riesce gestire o ad eliminare, si sfoga in un’esperienza di cibo. Frequentemente questo pattern comportamentale che il paziente utilizza per influenzare, cambiare o controllare le emozioni dolorose, è associato ad una percezione di perdita del controllo, come se un pilota automatico conducesse la persona a mangiare in eccesso senza riuscire a fermarsi e spesso senza nemmeno gustare il cibo ingerito. L’Emotional Eating è alla base del “modello della disregolazione emotiva nel comportamento alimentare disfunzionale”, secondo il quale alcuni eventi esterni, pensieri o sensazioni sgradevoli, producono intense emozioni avversative che necessitano di essere regolate; se la persona non è adeguatamente equipaggiata di strategie funzionali per gestire queste esperienze emotive, ha fallito in passato ed ha quindi una bassa aspettativa di riuscire a regolarsi senza servirsi del cibo, tenderà ad utilizzare quest’ultimo come un comportamento automatico per far fronte ad esperienze simili.

Le ricerche suggeriscono un coinvolgimento importante delle emozioni negative e della regolazione delle  stesse nel Binge Eating Disorder (BED). Il nucleo del comportamento di abbuffata, presente nei pazienti con BED può essere spiegato come il prodotto di una regolazione disfunzionale delle emozioni, dovuta ad un connubio tra vulnerabilità emotiva (alta sensibilità agli stimoli emotivi, intensità della risposta emotiva, difficoltà a tornare al livello base) e deficitarie abilità per una regolazione emotiva funzionale (deficit di denominazione, monitoraggio, modifica ed accettazione delle emozioni). Ciò fa sì che non soltanto risulti più probabile che sia sovrappeso o obeso chi soffre di BED rispetto a chi non ne soffre, ma la diagnosi di BED costituisce anche un indice predittivo sfavorevole circa l’efficacia dei trattamenti mirati alla perdita di peso; i pazienti obesi con BED ottengono solitamente il 55% in meno di perdita di peso dai trattamenti dimagranti, rispetto ai pazienti obesi senza diagnosi di BED. Le persone in sovrappeso o obese con diagnosi di BED riferiscono mediamente impulsi più intensi in risposta ad emozioni spiacevoli se confrontati con chi non soffre di BED, a parità di indice di massa.

Oltre a questa utilizzazione del cibo come modalità immediata per far fronte ad emergenze psicologiche, nelle storie dei pazienti con BED compaiono le influenze derivanti dalle abitudini acquisite nell’ infanzia; spesso, quando erano bambini, i rinforzi positivi in seguito a buoni comportamenti o la consolazione rispetto ad emozioni di tristezza o rabbia, venivano dati loro dai genitori quasi esclusivamente sotto forma di cibo (la cioccolata o le caramelle). Questo aspetto dello stile educativo genitoriale ha probabilmente reso più probabile che l’individuo adulto imparasse a mangiare per compensare o per gratificarsi.

Tra gli obiettivi terapeutici che ci poniamo con questi pazienti, è solitamente l’interruzione delle condotte di binge eating ad avere la precedenza. Dato che la condizione necessaria per riuscire in questo intento è quello di sostituire questa condotta disfunzionale di regolazione delle emozioni negative con altre maggiormente funzionali, il trattamento sarà centrato su due punti cardine: 1) Costruire una solida e costante motivazione al cambiamento di questo pattern comportamentale; 2) Apprendere ed esercitare nuove abilità personali utili a monitorare, valutare le emozioni e modificare la risposta ad esse.

 

Bibliografia:

Dalle Grave R., “Terapia cognitive comportamentale dell’obesità”, Positve Press, Verona, 2002.

Linehan, M., “DBT Skills training: manual”, Raffaello Cortina Editore,2 015

Ricca, V., Castellini G., Favarelli C. (2009). Binge eating disorder: caratteristiche psicopatologiche. Noos, aggiornamenti in psichiatria, 15, (2), pp. 119-146

Safer. D.L., Telch C.F., Chen E.Y., “Binge eating e bulimia: trattamento dialettico comportamentale”, Raffaello Cortina editore, Milano, 2011.