di
Niccolò Varrucciu

Ladies and Gentlemen, the oscar goes to…Disturbi dello Spettro Autistico (DSA).

Ebbene si, siamo finalmente arrivati sul “red carpet”, dove solo quelli degni di nota possono transitare. Adesso le superstar alzano la voce, servono servizi, maggiori diritti, centri specializzati, professionisti formati, interventi risolutivi. Gli intellettuali si mobilitano, s’indignano, urlano.

Se pensiamo che all’inizio e per buona parte del XX secolo gli autistici erano una popolazione completamente alienata, per cui non era nemmeno immaginata una terapia minima (figuriamoci l’endorsement dello star system) è una cosa buona, ma oltre alle dichiarazioni dei VIP ci sono centinaia di clinici e ricercatori che stanno cercando di definire cosa sia l’autismo e come possiamo aiutare chi ne è affetto.

Pertanto, cos’è l’autismo? Sono geni o disabili intellettivi? Che cosa passa nella testa di un autistico?

I disturbi dello spettro autistico sono un raggruppamento metasindromico, inserito, nel DSM 5, all’interno dei Disturbi del Neurosviluppo.

Il termine autismo deriva dal greco αὐτός (autos) «stesso», ovvero «se stesso», termine coniato all’inizio del novecento da Eugen Bleuler.

Il significato del termine rimanda chiaramente a quelle difficoltà comunicative e sociali e nell’attenzione condivisa che si riscontrano a diversi livelli e in modo eterogeneo.

I criteri principali necessari alla diagnosi riguardano il deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale (che comprende sia le difficoltà sociali che quelle di comunicazione) e i comportamenti e/o interessi e/o attività ristrette e ripetitive.

Rispetto alla concettualizzazione diagnostica precedente, importanti novità introdotte sono l’eliminazione del “ritardo/ menomazione del linguaggio” fra i sintomi necessari alla diagnosi e l’introduzione della “sensibilità insolita agli stimoli sensoriali”.  Tali modifiche sono molto importanti alla luce del fatto che più del 50% delle persone con DSA sono verbali a vari livelli e che i profili sensoriali e le reattività a stimoli di differente natura sono estremamente omogenei e di grande impatto sul livello di funzionamento.

I sintomi sono evidenti dal II anno di vita, ma possono essere notati a partire dai 12 mesi in caso di grave ritardo dello sviluppo.

Rispetto alle cause, nella maggior parte delle persone con Autismo rimane sconosciuta. La numerosità di sintomi clinici e le altre alterazioni evidenziabili ci suggeriscono una molteplicità di cause, di natura genetica e ambientale.

Un recente studio ha riscontrato fattori di rischio poligenici, risultanti dalla combinazione di migliaia di mutazioni genetiche. Tali differenze genetiche caratterizzano anche la popolazione neurotipica, determinando fenotipi comportamentali estremamente eterogenei che, nella loro manifestazione più severa, possono essere ricondotti a una diagnosi di autismo.

Studi effettuati su gemelli identici hanno evidenziato un’elevata concordanza (70–90%) per l’Autismo; su 100 coppie di gemelli un numero di coppie variabile da 70-90 avrà entrambi i membri affetti da DSA. Nei gemelli dizigotici il numero scende vertiginosamente, arrivando a una concordanza stimata variabile da 0 a 10.

La base genetica per l’Autismo è suffragata ulteriormente dall’alto rischio, in caso di primo figlio autistico, che anche il secondo ne sia affetto, 25 volte superiore a quello di una coppia con un figlio neurotipico.

Vi sono poi altri casi in cui l’autismo è parte di una sindrome nota, come  l’X Fragile, la Sclerosi Tuberosa, la sindrome di Angelman, ecc.

Oltre alle cause genetiche, molti ricercatori ritengono che tra le cause dell’Autismo vi siano anche i fattori ambientali. La ricerca in questo ambito è ancora molto limitata:  tra le cause più importanti vengono riconosciute l’esposizione delle madri durante la gravidanza ad infezioni virali  (rosolia o citomegalovirus), o l’inquinamento ambientale, soprattutto nel terzo trimestre trimestre, periodo fondamentale per lo sviluppo del Sistema Nervoso Centrale.

Questi due ordini di fattori non vanno considerati necessariamente in modo separato; è infatti possibile che la condizione autistica sia il risultato dell’interazione fra elementi genetici e ambientali.

Quindi che difficoltà ha una persona affetta da DSA? La risposta migliore sarebbe “dipende”, ma data la genericità, proviamo a fare un po’ di chiarezza; la prima differenziazione da fare è se nel quadro clinico sia presente o meno disabilità intellettiva.

Tale comorbilità, soprattutto se di grave livello, aumenta le difficoltà d’interazione, rende la persona più difficilmente accessibile e il tempo insieme di difficile fruizione e soddisfazione.

La comprensione delle richieste effettuate da queste persone sono spesso difficilmente intelligibili, con conseguenti reazioni di sofferenza, come tristezza, rabbia e frustrazione, spesso seguite da comportamenti problema auto o eteroaggressivi.

Nell’alto funzionamento, ovvero autismo con intelligenza nella norma o addirittura sopra, le dinamiche sono molto diverse, ma i risultati spesso no. Infatti, a fronte di ottime capacità personale e comunicazione, permangono difficoltà di lettura dei propri e altrui stati d’animo e delle intenzioni, collocando questa persona in un mondo non condiviso dagli altri.

La mancata generalizzazione dell’interesse, che rimane sull’oggetto o sull’attività e non si estende mai alla persona che ha quell’oggetto o svolge quell’attività, contribuisce a mantenere una certa distanza e diffidenza verso queste persone.

Anche la suscettibilità sensoriale, comune alle due tipologie di autismo sopradescritte, ha grande rilevanza nella vita di queste persone, esponendole al rischio di sovraccarico, con conseguente l’isolamento (shutdown) o crisi aggressive (meltdown).

Queste sono soltanto alcune delle dinamiche si possono instaurare quando ci confrontiamo con persone affette da DSA e che possono inficiare la qualità della relazione, esacerbando situazioni già molto complesse.

I piani di trattamento, ultimamente in netta evoluzione, sono spesso incentrati sulla performance e sul raggiungimento di abilità, in modo da “normalizzare il più possibile”.

È così che, prendendo il largo dalle concezioni psicodinamiche che affondavano le responsabilità nelle vite di genitori disperati, l’analisi del comportamento si è piano piano affermata; è così che finalmente abbiamo iniziato a parlare di, sistemi, procedure, dati e obiettivi e non di distacco , inadeguatezza genitoriale e madri frigorifero.

Tali interventi, sempre più di natura ecologica, si concentrano sull’acquisizione di abilità e sulla relativa generalizzazione nell’ambiente di vita.

Recentemente (e fortunatamente direi) si sta diffondendo anche l’utilizzo della psicoterapia, prevalente di natura cognitivo comportamentale, anche di terza generazione, votati all’aumento di consapevolezza degli stati mentali propri e altrui, all’individuazione delle credenze disfunzionali e all’esposizione a situazioni temute.

Insieme con la consapevolezza cresce la capacità dell’individuo di riflettere sui propri valori, bisogni e obiettivi e di mettere in atto comportamenti funzionali che li rendano in grado di perseguirli. Inoltre, aumenta la loro capacità di comprensione del mondo in cui vivono, aumentando la percezione di condivisione.

Dall’altra parte, la terapia non può non considerare il sistema intorno alla persona, che va “formato e informato” con una psicoeducazione ad hoc sulle modalità di funzionamento della persona, in modo da aumentare la concordanza relazionale e il conseguente grado soddisfazione.

Da un punto di vista farmacologico, non esiste una terapia mirata per i sintomi core dell’autismo; il target principale è rappresentato dai sintomi associati, come l’irritabilità o l’aggressività e la (frequente) psicopatologica in comorbilità.

Naturalmente i diversi professionisti che interagiscono con queste persone devono essere formati sulle peculiarità di questa condizione così complessa.

In ultima analisi, come elemento trasversale a ogni intervento dovrebbe essere considerata la qualità di vita della persona con DSA e della sua famiglia come uno dei criteri finale di valutazione dell’efficacia. Perseguire il miglioramento della qualità di vita in una persona con DSA significa distanziarsi da approcci mirati soltanto a restituire l’integrità morfologica e funzionale e considerare ciò che per lui è importante e da cui può trarre soddisfazione e metterlo al centro del progetto terapeutico.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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