di
Andreina Arcuri

 

Negli ultimi mesi sentiamo spesso notizie di cronaca parlare di bulli, baby gang e giovani delinquenti.

La violenza di queste gesta angoscia proprio per la sua gratuità: generalmente non era per vendetta, né per rubare che le giovanissime vittime sono state aggredite, sono scelte a caso, come se uno valesse l’altro, come se tutti non valessero nulla.

Quando si parla di nuove generazioni, è ormai sempre più diffuso il concetto di devianza giovanile. Si definisce devianza ogni atto o comportamento di una persona o di un gruppo che viola le norme di una collettività e di conseguenza va incontro a sanzioni, condanne o discriminazioni; l’aggettivo “giovanile”, invece, è riferito al periodo adolescenziale in cui il soggetto che mette in atto tali comportamenti vive.

L’adolescenza è una fase dello sviluppo molto delicata, in cui il ragazzo si trova a vivere e esperimentare cambiamenti fisici e psicologici molto importanti. Se da un lato essa è caratterizzata da variazioni ormonali, corporee e di crescita, vanno altresì sottolineati sia i cambiamenti psichici che possono portare ad un aumento di irritabilità, irrequietezza, umore altalenante, sia i cambiamenti all’interno del contesto sociale. L’adolescente reclama, infatti, con vigore la propria autonomia e individualità, ma data la giovane età, resta profondamente dipendente dal contesto familiare nel quale vive (Marcelli e Braconnier,1994).

Di conseguenza, tende ad isolarsi dai genitori, svilendo il loro ruolo e il loro potere pur non riuscendo a fare a meno di loro. Le qualità e le caratteristiche dei coetanei vengono il più delle volte esaltate e assumono delle valenze straordinarie, per cui l’adolescente sente il bisogno di vivere spesso ed intensamente con questi. Pertanto, mentre le regole dei genitori sono contestate o rifiutate le regole dei coetanei sono accettate senza molta difficoltà (Bonin, 2018).

Gli adolescenti vivono la ricerca della propria identità oscillando tra comportamenti di devianza e ribellione, tra pericolo e regole.  Vogliono essere visti, ascoltati, hanno necessità di comprensione e di essere accettati. Spesso però, per raggiungere questi obiettivi, i ragazzi mettono in atto comportamenti violenti e pericolosi, per sé stessi o per gli altri.

I comportamenti antisociali, come commettere piccoli furti, risse e abuso di sostanze sono molto frequenti. Spesso questi gesti vengono ripresi dagli smartphones e caricati sui social. L’intenzione è quella di “avere un pubblico” al quale mostrarsi come “eroi”.

Il “gruppo” ha una duplice funzione: esso sostiene l’azione criminosa incoraggiando i vari componenti della baby gang, che devono rispettare le regole rigide del gruppo. Un secondo aspetto della situazione di gruppo è l’aumento della tendenza all’emulazione, anche del “pubblico social”.

Spesso i termini “baby gang” e “bulli” vengono usati in modo intercambiabile anche se si tratta di due fenomeni differenti.

Dan Olweus, psicologo norvegese, riconosciuto come un pioniere della ricerca sul bullismo, sostiene che “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni negative, messe in atto da parte di uno o più compagni” (Olweus, 1996). Dunque, con il termine bullismo si è soliti far riferimento al fenomeno delle prepotenze perpetrate da bambini e ragazzi nei confronti dei loro coetanei soprattutto in ambito scolastico o negli spazi di socialità. E’ presente un bullo con i suoi gregari, oltre ai cosiddetti spettatori, che osservano senza agire, deresponsabilizzandosi di fronte all’aggressione di un pari.

Per essere definito tale, il comportamento deve presentare tre caratteristiche precise: intenzionalità, persistenza nel tempo, asimmetria nella relazione.

L’azione deve essere intenzionale ed eseguita al fine di arrecare un danno alla vittima; deve essere ripetuta nei confronti di un particolare compagno e caratterizzata da uno squilibrio di potere tra chi compie l’azione e chi la subisce.

La diversità può riguardare l’aspetto fisico, l’identità sessuale, l’etnia, l’appartenenza socioculturale o la condizione psicofisica.

Il fenomeno delle baby gang presuppone che ci sia un gruppo con struttura verticale, anche in questo caso guidato da un leader, con spesso regole di inserimento, che possono prevedere riti di iniziazione e prove di coraggio e che sono caratterizzate da ruoli maggiormente strutturati. La azioni violenti non sono necessariamente rivolte contro singolo bersaglio, né ripetute solo contro di esso.

Si tratta di un gruppo, nel quale non agisce solo il singolo e che cerca di controllare il territorio tramite la messa in atto di condotte violente con reati verso il patrimonio e verso la persona. Si parte dal furto di smartphone e oggetti firmati, per arrivare alle rapine, alle aggressioni, agli atti vandalici e allo spaccio.

Le norme che regolano le baby gang privilegiano l’uso della violenza in diverse situazioni: per risolvere una disputa, per difendere l’identità dei componenti e l’onore del gruppo, per espandersi e proteggere il territorio, per raggiungere obiettivi. Spesso questa violenza entra anche nel mondo della scuola, in cui gruppi organizzati di giovani molestano, picchiano non solo i loro coetanei ma anche gli stessi professori. Ciò rende il confine tra baby gang e bullismo sempre più indefinito, poiché le azioni di prevaricazione di gruppo si trasformano in minacce, rapine, e altri reati quali percosse, violenze fisiche, psicologiche, sessuali, estorsioni, ecc.

Poiché il fenomeno del bullismo si sviluppa spesso nelle scuole, visto che è l’ambiente in cui si sperimentano le prime relazioni con i coetanei e in cui avvengono le prime esperienze di inserimento in gruppi, possiamo vedere le baby gang come una sorta di “evoluzione” del bullismo.

Se si analizzano le caratteristiche di questi gruppi giovanili che spesso trovano risalto nelle notizie di cronaca e vandalismo, si scopre che non sempre si tratta di vere e proprie bande. Infatti, sono privi delle caratteristiche tipiche di una gang, come ad esempio una struttura gerarchica definita, regole di condotta, una buona coesione tra i membri ed il controllo del territorio. La violenza è spesso gratuita, sistematica, psicologicamente contagiosa. La violenza, in ogni caso, è la caratteristica del gruppo, ma anche l’unico strumento comunicativo valido riconosciuto dai partecipanti. L’uso della violenza è diventato quasi la norma per molti giovani. La soglia di percezione dell’illecito si è drasticamente abbassata, a causa anche di modelli aggressivi a cui si ispirano.

Anche se Italia, non è ancora largamente diffuso il modello tradizionale delle babygang, così come originariamente si sono sviluppate in America Latina e negli Stati Uniti con lo scopo preciso di controllare il territorio tramite la violenza, è possibile riscontrare un fenomeno di condotte violente che coinvolge molte realtà giovanili e che aumenta il rischio dei più giovani di precipitare in uno schema avanzato e complesso come quello sopra descritto.

Il bullismo o il riunirsi di adolescenti in baby gang è, pertanto, la risultante di un insieme di azioni che spesso sono persistenti e mirano deliberatamente a fare del male e/o a danneggiare chi ne rimane vittima. Alcune azioni offensive avvengono attraverso l’uso delle parole, per esempio minacciando od ingiuriando; altre possono essere commesse ricorrendo alla forza o al contatto fisico: schiaffi, pugni, calci o spinte. In altri casi le azioni offensive possono essere condotte beffeggiando pesantemente qualcuno, escludendolo intenzionalmente dal proprio gruppo” (Petrone e Troiano, 2005).

Viene naturale pensare che questo tipo di microcriminalità trovi un terreno più fertile nei contesti degradati, caratterizzati da condizioni critiche a livello economico, sociale e familiare.

Tali condotte hanno spesso origine da storie di infanzia deprivata, storie segnate da abusi e incuria del sistema familiare, spesso problematico o con stili educativi basati sull’autoritarismo e l’intolleranza.

In realtà, si tratta di fenomeni sociali molto diffusi nei contesti ad estrazione sociale medio alta. È piuttosto frequente che si tratti di adolescenti incensurati che provengono da famiglie benestanti, ragazzi “annoiati” che utilizzano modalità devianti come distrazione e per innalzare il proprio status all’interno del gruppo.

Parliamo di ragazzi della medio-alta borghesia, cresciuti nell’agio economico, vissuti in famiglie arrendevoli o iperprotettive, che non soffrono situazioni di svantaggio sociale, ma attivano comportamenti che indicano uno stato di malessere più profondo, frutto di una sfilacciatura del sistema di “contenimento affettivo”.

Mancano le figure adulte di riferimento, figure autorevoli e contenitive dal punto di vista emotivo, affettivo e relazionale che accompagnino i bambini e i ragazzi nel percorso di crescita e di assunzione del processo di responsabilizzazione e nello sviluppo di una competenza sociale e relazionale che parta dall’empatia e conduca al comprendere gli stati emotivi degli altri.

Punto in comune è l’assenza di una simbolica guida adulta che avvii e sostenga il percorso di crescita e responsabilizzazione, il contatto con le frustrazioni della realtà, il compromesso con il punto di vista dell’altro. Per questi ragazzi, l’altro da sé, il diverso, non è un elemento arricchente ma, al contrario, mette in pericolo la propria fragile identità.

Si tratta di ragazzi che non hanno imparato a considerare l’incontro con l’altro come un’occasione di confronto e la possibilità di una crescita, ma come qualcuno che può mettere in discussione la loro fragile identità. L’altro è un pericolo e non un elemento che può arricchirli.

Da un punto di vista psicologico, ci troviamo di fronte a ragazzi che sembrano aver perso il contatto con le regole sociali e prima ancora con le loro emozioni e con l’empatia e che non hanno capacità di regolazione emotiva. Spesso si ritrovano soli ed incapaci di affrontare frustrazioni e responsabilità tipiche della loro età. L’“acting out”, cioè l’agire impulsivo e rabbioso ad un commento non coerente con le proprie attitudini, determina scoppi d’ira, una corsa alla vendetta che non lascia spazio alla razionalità, il dialogo, l’ascolto e la comprensione della sofferenza altrui.

Cosa possiamo fare per arginare questo problema e aiutare questi ragazzi?

Riuscire a individuare le cause profonde che sono alla base di certi comportamenti devianti diventa cruciale; significa chiamare in causa il degrado del territorio, le responsabilità dei tessuti familiari che si vanno sfaldando, generando vuoti affettivi difficilmente colmabili, o che presentano contesti di vita i cui i valori sono deboli o assenti.

Se è vero che si tende a dare alle famiglie tutte le colpe dei comportamenti violenti e delinquenziali dei ragazzi, è anche vero che nella società attuale la famiglia è sola. Bisogna ristrutturare una rete di supporto, fatta da servizi scolastici, sociali e sanitari, che individui precocemente situazioni di criticità e fragilità e attivi un supporto nei confronti dei membri della famiglia.

Un punto di partenza fondamentale per raggiungere questo supporto è sicuramente l’alleanza tra le due agenzie educative più importanti nella vita dei ragazzi: famiglia e scuola. Esse devono imparare a sostenersi a vicenda in modo da creare una vera promozione del benessere dei ragazzi che si traduce nella prevenzione di fenomeni di violenza.

In primis la famiglia, come punto di riferimento, deve ricostruire figure genitoriali credibili e offrire il proprio sostegno, impegnandosi a costruire un rapporto significativo con i figli; mentre la scuola, dove i ragazzi cominciano a costruire le prime relazioni sociali, a conoscere l’altro, a sperimentare i primi successi e insuccessi, deve valorizzare la centralità della persona e favorire la sua crescita per far sentire i ragazzi parte integrante di un contesto che li accoglie e li comprende.

I genitori devono avere un ruolo fondamentale e andare oltre a ciò che avviene in alcune situazioni, fin troppo frequenti, in cui è lo stesso adulto a minimizzare l’atto violento, in un automatico processo di legittimazione dello stesso. Compito della famiglia è innanzitutto quello di educare.

Il ruolo genitoriale, per quanto possa risultare difficile nell’attuale società, deve includere elementi di comprensione, severità, affetto e controllo, mixati tra loro nella giusta misura. É fondamentale essere attenti, presenti e disponibili.

I ragazzi hanno bisogno di un’educazione socio-affettiva che li aiuti a sviluppare empatia nei confronti degli altri in modo che possano imparare che ci si può relazionare ai pari e agli adulti con sensibilità, senza “perdere di valore”, ma anzi guadagnando la possibilità di arricchirsi grazie al confronto con persone ritenute diverse da sé.

Anche la scuola può fare molto in questo processo di familiarizzazione col diverso, può creare occasioni di incontro, dialogo e confronto, facendo sentire la presenza reale del corpo insegnante in modo che nessun ragazzo si senta solo.

La scuola dovrebbe fornire spazi di aggregazione e socializzazione, promuovendo alternative alla rabbia e al cinismo: educazione emotiva, percorsi di educazione al rispetto dell’altro e contro la violenza di genere, ma anche attività di socializzazione, come sport, doposcuola, spazi protetti come i centri di aggregazione giovanile.

Sono molto utili allo scopo i progetti di peer education, educazione tra pari, in cui l’obiettivo è la responsabilizzazione dei ragazzi, attraverso la possibilità di imparare a mettersi nei panni degli altri, di sviluppare la propria capacità autoriflessiva e di regolazione delle emozioni e quindi del comportamento.

Dunque, la prevenzione in famiglia così come nelle scuole è il primo tassello per aiutare i ragazzi ad adattarsi correttamente alla società. I ragazzi hanno bisogno di trovare sostegno in famiglia e a scuola, sentirsi parte integrante di un contesto che li accoglie e li comprende. Scuola e famiglia devono sostenersi a vicenda per esaltare le potenzialità dei ragazzi ed esorcizzane le ansie attraverso strumenti più sensibili.

Non deve, tuttavia, essere trascurata la presenza attiva delle altre istituzioni o delle altre realtà sociali, ritrovando e promuovendo una rinnovata coscienza civile. Senza una rete forte di strutture di accoglienza, di sostegno, di formazione, che consenta di riunire tutti gli interventi in un unico orizzonte di senso, questi adolescenti non avranno la possibilità di modificare la propria rappresentazione del mondo.

 

Bibliografia

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Bonino, S. (2018). “Anche in adolescenza gli adulti non sono inutili”. Psicologia contemporanea, Novembre-Dicembre.

Cardinali, C. & Luzi, M. (2016). “Devianza minorile: interpretare l’adolescenza nella società contemporanea”. Edizioni Nuova Cultura, Roma.

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Petrone, L., & Troiano, M. (2005). “Bullismo e baby gang: strategie di prevenzione nelle scuole”. Sommario, 75 (2005)