di
Francesco Baccetti

Lo shopping compulsivo, il ruolo degli acquisiti e degli oggetti sulla
percezione del proprio sé

Che cos’è:
Lo shopping compulsivo o oniomania, viene generalmente inquadrato tra le nuove dipendenze comportamentali, che vanno a costituire una categoria diagnostica di recente interesse. Come le altre dipendenze si definisce attraverso comportamenti eccessivi e una mancanza di controllo che vanno a produrre disagio emotivo, danno a livello relazionale e sociale, con possibili conseguenze economiche e
legali (Di Martino, D’amore, 2008).
L’ezipatogenesi risulta complessa ed i fattori in gioco sono molteplici: mentre alcuni autori considerano tale disturbo simile all’uso e all’abuso di sostanze (Faber & O’Guinn, 1992; Faber et all.,1995), per altri risulta essere parte dei disturbi appartenenti allo spettro ossessivo-compulsivo, insieme alla dipendenza da gioco d’azzardo, la cleptomania, la piromania ed i comportamenti sessuali compulsivi
(Tavares et all., 2008).

Quando comprare diventa patologico:
Lo shopping compulsivo non rientra tra i disturbi indicati nei manuali diagnostici,nello specifico non viene descritto nel DSM V (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) (APA, 2013) né nello ICD-10 (International Classification of Diseases). Tenendo conto dei criteri diagnostici formulati (McElroy et al., 1994) può essere inquadrato sul piano diagnostico come “disturbo del controllo degli impulsi non altrimenti specificato” (Mueller et al., 2009). Riprendendo i criteri di questo disturbo, ci sono due aspetti essenziali che definiscono il comportamento di acquisto patologico, differenziandolo dall’acquisto ordinario:
a) il comportamentodeve essere ripetitivo;
b) il comportamento deve risultare problematico perl’individuo; generalmente, almeno in una prima fase, la persona con shoppingcompulsivo non considera problematico il proprio comportamento; al contrario,
molto spesso viene percepito come una risposta positiva ed efficace ad unacondizione iniziale di ansia e di stress emotivo (O’Guinn & Faber, 1989),successivamente vengono poi rilevati problematiche economiche e relazionali relative a tale condotta.

Cosa significa possedere un oggetto:
Durante i tempi antichi e nell’arco della storia dell’uomo filosofi e pensatori come Platone, Aristotele, S.Tommaso d’Aquino, Locke, Hume hanno cercato di attribuirgli un significato, un limite, un utilizzo al possesso di un oggetto; in particolare Jean-Paul Sartre sosteneva che dovremmo imparare chi siamo
dall’osservazione di ciò che possediamo.
Nel 1918 James descrisse l’acquisire o l’appropriazione come un istinto, parte integrante della vita dell’uomo che è presente fin dalla nascita; questo istinto contribuisce alla costruzione del nostro senso d’identità, ciò che sono io si fonde con ciò che è mio e così il nostro Sé finisce per essere definito da ciò che possediamo.
Verso la metà del ventesimo secolo, Fromm nel 1977 sviluppa una teoria del carattere, secondo la quale acquisire oggetti è un modo attraverso cui le persone si relazionano al mondo attorno a loro. L’acquisizione costituisce un aspetto nucleare del proprio senso di sé; l’eccesso o quello che l’autore definisce “un’inclinazione ad accumulare”, è una delle quattro tipologie di carattere definito “non
produttivo”.
Le persone inclini all’accumulo guadagnano il loro senso di sicurezza dal collezionare o dal mettere da parte gli oggetti. Queste persone sono descritte, inoltre, come introverse, compulsive, sospettose, distanti dagli altri, ordinate ed eccessivamente preoccupate della pulizia e della puntualità (Frost & Steketee,2012).
Winnicott (1974), attraverso il concetto di oggetto transizionale, ha preso in esame il valore emotivo e simbolico degli oggetti nel bambino. Questi oggetti vengono concettualizzati come dei sostituti della figura materna che facilitano il passaggio dal rapporto con la madre all’autonomia; se all’inizio solo la madre riesce a calmare il bambino dopo i periodi di distacco, ad un certo punto l’oggetto transazionale prende il suo posto fino a quando il bambino riesce a consolarsi anche da solo (Winnicott, 1974).
Furby, ricercatrice pionieristica nel campo della proprietà e dei possedimenti, nella seconda metà del secolo scorso, prova a formulare una spiegazione del valore che le persone attribuiscono a ciò che possiedono, identificando tre grandi tematiche trasversali ad ogni età. Il primo aspetto è che gli oggetti aiutano chi li possiede a fare o realizzare qualcosa, fornendo quindi un senso di potere personale e di autoefficacia; gli oggetti in tal senso hanno un valore strumentale, sono mezzi per dei fini, consentono di esercitare un certo grado di controllo sul ambiente. Il secondo aspetto, che ricorda il concetto di oggetto transazionale di Winnicott, riguarda la capacità degli oggetti di trasmettere un senso di sicurezza. Questa funzione degli oggetti è stata sottolineata anche da Adler, che sosteneva che la proprietà è per gli essere umani un mezzo per compensare il senso d’inferiorità originato alla nascita. Il fatto che degli oggetti inanimati possono garantire benessere trova conferma anche negli studi sui primati. Negli esperimenti di Harlow, per esempio, i cuccioli di scimmia mostrano un’innata preferenza per una
madre surrogata con una superficie morbida e rivestita rispetto ad una rete metallica, anche quando solo quest’ultima fornisce del cibo.
Un terzo aspetto che secondo Furby gioca un ruolo nel valore che le persone danno agli oggetti che si possiedono, è l’identificazione con essi: gli oggetti sono vissuti come parte del senso di sé. In questo senso gli oggetti possono incrementare lo status oppure il potere di una persona, così come possono
mantenere intatta l’identità preservando la storia personale (Frost & Steketee,2012).
Nella società contemporanea, la sovrapposizione tra Sé e oggetti posseduti è amplificata dalle strategie di comunicazione messe in campo dalla pubblicità e dalle grandi marche. Le marche divengono espressioni simboliche di valori, di significati che associati agli oggetti ne giustificano l’utilizzo e la popolarità (Olivero & Russo, 2013). Molto spesso i consumatori associano a determinati prodotti anche degli attributi intangibili non previsti dal produttore e dal marketing stessi.
La condivisione sociale del valore economico di certi beni è un fattore centrale per il concetto di materialismo, cioè la tendenza ad attribuire valore al possesso di beni e alle persone che ne sono in possesso e risulta essere un aspetto importante nel comportamento di shopping compulsivo (O’Guinn & Faber, 1987).
Le persone con alti livelli di materialismo misurano il proprio e l’altrui valore in riferimento ai beni materiali che apparirebbero anche come garanzia di felicità; gli oggetti posseduti quindi possono essere considerati come espressione di valore individuale ed assumono anche il significato di estensione del sé (extended self) (Belk, 1988).
I beni con cui entriamo in relazione assumono significati ulteriori a quelli già veicolati, attraverso le strategie di comunicazione, dalla marca; si può sostenere che i significati condivisi al livello sociale orientano il consumatore verso un dato prodotto, il quale successivamente mette in atto un’operazione di personalizzazione, di attribuzione di significati legati alla relazione che vi instaura, divenendo un territorio esteso per la rappresentazione del sé (Belk, 1988;Dittmar, 1992).
In relazione al materialismo, le persone con shopping compulsivo non mostrano un desiderio di entrare in possesso degli oggetti più alto della maggior parte delle persone; piuttosto manifestano maggiore invidia degli altri per i beni posseduti e una minore generosità (O’Guinn & Faber, 1989).
Appare evidente che tale tematica risulta tutt’oggi fronte di ricerca e di discussione, anche perché in continuo divenire a seconda dei modelli sociali e di consumo proposti; è inoltre affascinante pensare che tale condotta possa essere un argomento allo stesso tempo antico e attuale tanto da porre interrogativi agli studiosi di ieri e di oggi.

Approfondimenti:
• BACCETTI F. (2015) “Lo shopping compulsivo”. In Perdighe C. e Mancini F. Il Disturbo da Accumulo.   Milano: Raffaello Cortina Editore.
• BELK R.W. (1988), “Possession and the extended self”. In Journal of Consumer Research, 15, pp. 139-168.
• DITTMAR H. (1992), The social psychology of material possession: to have is to be. Hemel Hempsted: Harverester Wheatsheaf.
• FABER R.J., O’GUINN T.C. (1987), “Compulsive consumption and credit abuse”. In Journal of Consumer Policy, 11, 1, pp. 97-109FROST R.O., MORRIS C., BLOSS C., MURRAY-CLOSE M., STEKETEE G. (1998), “Hoarding, compulsive buying and reasons for saving”. In Behaviour Research
and Therapy, 36, 7–8, pp. 657–664.
• FROST R.O., STEKETEE G. (2012), Tengo tutto: perché non si riesce a buttare via niente. Erickson, pp. 53-69.
• O’GUINN T.C., FABER R.J. (1989), “Compulsive Buying: A Phenomenological Exploration”. In The Journal of Consumer Research, 16, pp. 147-157.
• OLIVERO N., RUSSO V. (2013), Psicologia dei consumi. McGraw-Hill