di
Giulia Paradisi

“Non riesco a stare sola. Il mio problema è questo. Ho riempito la mia vita di impegni, di relazioni, di attività talvolta frenetiche che si susseguono l’una all’altra. Tutto ciò per non sentire la solitudine. Per sentirmi utile, mi sono dedicata agli altri. Da piccola mi descrivevano come una bambina mansueta, docile, timida, timorosa degli sconosciuti e riservata con chi conoscevo. Venivo lodata dagli adulti per questa mia disponibilità ad adattarmi, per questo mio essere flessibile al volere altrui. Piacevo molto, forse, perché non creavo problemi. Grazie alla terapia ho scoperto che il mio carattere, o meglio, questo mio modo di essere, l’ho imparato nella mia infanzia, nella mia storia, all’interno della mia famiglia. In terapia mi ci sono ritrovata perché il dolore per aver perso una persona che amavo mi ha distrutto letteralmente la vita. Più andavo avanti e più mi accorgevo (grazie anche agli amici che me lo ripetevano) che quel dolore non era normale…. era troppo, era lacerante, la mia autostima era a terra, mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo… Non avevo più voglia di fare niente e niente, per me, aveva più un senso… Non accettavo l’idea che nonostante mi fossi presa cura di lui e gli avessi dedicato la mia vita, lui si fosse disfatto di me. Che mi avesse buttato via come si fa con un vestito vecchio. I primi segni di questo suo allontanamento li avevo notati, ma non volevo dargli peso. Non volevo crederci. Ma dentro di me era già partita la sirena… Quell’inquietudine sotto sotto, nel profondo, che mi diceva: ‘Arianna, attenta perché non ti guarda più come prima. Non ti sta guardando con gli occhi innamorati che aveva un tempo. Si è stancato, è distratto, vedi?’. In quei omenti dentro di me si creava un vuoto, un’assenza, una voragine che non mi faceva neanche pensareIl tempo si fermava… Non provavo neanche a trovare una soluzione, non gli parlavo, non gli chiedevo niente, anche solo che cosa avesse nella testa. Un po’ perché avevo paura di allontanarlo ancora di più con la mia morbosità, e poi perché neanche sapevo da dove partire: la mia angoscia era troppo grande per essere espressa. Quando mi ha lasciata è iniziato il mio dramma, la mia vita ha avuto uno stop. Il lavoro, gli amici, i parenti, le vacanze, il mio cane… era tutto distante, non mi interessava più niente, quello che facevo era solo piangere e cullarmi nel ricordo di noi. Dormivo con la mia mamma, le stavo attaccata come quando avevo due anni, avevo sostituito lui con lei, perché mi sentivo troppo fragile e da sola mi sembrava di non farcela… Il timone della mia vita non era più nelle mie mani. Ho pensato alla morte come soluzione al continuo pensare a lui, che era diventata la mia ossessione, che non mi faceva dormire né mangiare. Non potevo immaginarmi senza di lui, era la prima persona che mi aveva fatto sentire finalmente me stessa, sicura, protetta, libera. Perderlo significava perdere la Me Forte… Senza di lui non ero niente…. Tornavo ad essere piccola… e da piccola non mi sentivo come mi descrivevano gli altri… in realtà ero triste, sola, impaurita. In terapia sto recuperando quella ME FORTE, mi sono riscoperta tutta intera, non sento più come prima quel bisogno di trovare l’altra metà. E ho capito che usavo gli altri e le cose che facevo come fossero dei pezzi mancanti del mio puzzle. Senza tutte quelle cose mi sentivo persa, non mi riconoscevo e non mi piacevo… Oggi mi godo di più me stessa…e ne ho meno paura. La strada non è ancora finita, ma penso di avere la forza per camminare sulle mie gambe”.

 

Questa è la storia di Arianna, una paziente che presenta dei tratti del Disturbo Dipendente di Personalità. Le sue parole ci descrivono alcune sfumature del sentire e dei vissuti problematici di chi soffre di questo disturbo.

 

Il disturbo dipendente di personalità si caratterizza per la vitale necessità di avere relazioni interpersonali accudenti, il timore della solitudine e dell’abbandono e la scarsa motivazione individuale. La necessità pervasiva ed eccessiva di essere accuditi può determinare un comportamento sottomesso nei confronti degli altri, finalizzato a suscitare protezione e vicinanza. Questo pattern è originato da una percezione di sé come incapace di funzionare adeguatamente l’assenza dell’aiuto e del sostegno di altri. Questi soggetti hanno grande difficoltà a prendere decisioni (es. cosa indossare) e, per questo, richiedono consigli e rassicurazioni da parte degli altri. Tendono ad essere passivi e lasciano l’iniziativa agli altri, spesso consentendo loro di assumersi la responsabilità per la gran parte dei settori della propria vita. Hanno difficoltà ad esprimere disaccordo verso gli altri per un sottostante timore di perdere la loro approvazione e il loro supporto, non si arrabbiano adeguatamente con le persone dalle quali vogliono essere accuditi per evitare che esse si allontanino. A queste condizioni, spesso questi individui hanno difficoltà a fare progetti o ad intraprendere cose in modo indipendente dagli altri; mancano di sicurezza in se stessi e credono di avere necessità di aiuto esterno per portare avanti i compiti, si presentano come inetti e bisognosi di costante assistenza. Possono, tuttavia, funzionare adeguatamente se hanno la sicurezza che qualcun altro sta supervisionando e li approva. Possono temere di diventare o di apparire più competenti, poiché possono credere che questo conduca all’abbandono. Pur di ottenere accudimento e supporto degli altri, questi individui possono giungere a qualsiasi cosa, fino al punto di offrirsi per compiti spiacevoli e a rispondere positivamente a richieste irragionevoli. Si sentono a disagio o indifesi quando sono soli a causa dell’esagerato timore di essere incapaci di prendersi cura di sé. Quando termina una reazione intima (es. rottura di un legame, morte di un caro) possono cercare con urgenza un’altra relazione che fornisca il supporto e l’accudimento di cui hanno bisogno. I soggetti con questo disturbo sono spesso preoccupati dal timore di essere lasciati a prendersi cura di sé: si sentono così totalmente dipendenti dal consiglio e dall’aiuto di un’altra persona importante che temono che questa li abbandoni, anche quando non ci sono motivi per giustificare tale paura. Le persone con personalità dipendente sono caratterizzate da insicurezza e scarsa autostima, possono avere difficoltà a prendere decisioni quotidiane senza essere rassicurate dagli altri o possono sentirsi a disagio o indifese quando sono sole, a causa del timore di essere incapaci di prendersi cura di se stesse; tendono a sottomettersi all’altro mettendo i propri bisogni e le proprie opinioni in secondo piano per il timore che l’altro possa risentirsi e allontanarsi.

 

Beck, Freeman et al. (1990) descrivono questo disturbo come il risultato di schemi disfunzionali, in cui il Sé è visto come debole, bisognoso, indifeso, in opposizione con l’idea dell’altro che è visto come competente, adeguato e capace di offrire accudimento e protezione. Anche Arianna presentava credenze di questo tipo: “ho bisogno degli altri – specialmente di una figura forte – per poter sopravvivere”, “non posso vivere senza lui”, “non posso mai essere felice a meno che non sia amata”, “se non mi amano, sarò sempre infelice”, “non devo offendere né contraddire chi si prende cura di me”, ecc.

 

Come sostiene Lorenzini (2016), in questi soggetti la domanda “ma tu cosa desideri, cosa veramente vorresti?” ottiene sempre esplicitamente o meno la risposta “quello che preferisce l’altro”. Lo scopo strumentale sempre attivo in loro è far contento l’altro, quale che sia quello terminale a cui serve. Si tratta di una risposta assolutamente sincera. Davvero non sa cosa desidera. Essendo una strategia di sopravvivenza molto precoce, a lungo andare il monitor che vigila su bisogni interni e desideri va in stand by o si spegne proprio definitivamente per risparmiare energia. Anche Arianna, quando arriva per la prima volta in terapia, non ha scopi personali definiti o fissati, sembra non conoscersi, poiché il suo interesse principale è da sempre stato quello di occuparsi dell’altro e di renderlo felice, così da evitarsi lo scenario più temuto: rimanere sola.

 

Birtchell e Borgherini (1999) sottolineano come caratteristica del disturbo la difficoltà di stabilire una propria identità separata da quella delle figure di riferimento. In terapia cognitiva, infatti, uno degli obiettivi che ci si pone è quello di aiutare la persona che ne soffre ad individuarsi dall’altro e a ritrovare una propria dimensione autonoma insieme ad una rappresentazione più positiva di sé. Non si lavora però contro la dipendenza, ma verso una capacità di regolare le proprie scelte in maniera autonoma (Dimaggio, Semerari, 2003).

 

La terapia offre inoltre un importante spunto per conoscere ed approfondire i contesti di apprendimento di alcuni schemi propri di questo disturbo: Arianna ad esempio è stata aiutata a prendere consapevolezza di quali fattori, nella sua storia di vita, avessero contribuito a far sì che la paziente costruisse un’idea di sé come debole, bisognosa, incapace di cavarsela da sola, senza l’affetto e il sostegno degli altri. L’idea che per sentirsi una persona di valore dovesse sempre conquistarsi e meritarsi l’approvazione e la benevolenza degli altri, anche mettendo in secondo piano i propri bisogni, era un’idea che veniva da lontano e che aveva imparato da piccola. Tramite la terapia, Arianna ha messo in discussione i propri schemi, che ad oggi non le servono più per ottenere l’affetto degli altri (“posso permettermi di essere quella che sono: chi mi ama mi accetta per quella che sono”). Si è progressivamente impadronita di una maggiore fiducia nelle proprie risorse e nei propri mezzi, riscoprendo alcune caratteristiche ed aspirazioni personali a cui non era stato dato molto spazio nel corso della sua crescita; Arianna ha sperimentato che per sentirsi una persona di valore può contare sulle proprie caratteristiche e inclinazioni, che può darsi il diritto di fissare degli obiettivi personali e che, per dare un senso alla sua vita, può “azzardarsi” a puntare sulle proprie idee indipendentemente dall’approvazione degli altri.

 

Un’altra parte di lavoro terapeutico è stata dedicata allo sviluppo di abilità volte a tollerare le emozioni intensamente dolorose, ad esempio attraverso la Mindfulness, e a gestire le situazioni stressanti attraverso la tecnica del Problem Solving e il Training di Assertività (imparare a dire di no, fare richieste, esprimere la propria opinione di fronte ad altri…). Questo ha permesso di sviluppare strategie per regolare le emozioni dolorose (tristezza, angoscia, paura, rabbia) senza farsi sopraffare da esse, portando Arianna ad un aumento del senso di competenza e di autoefficacia, nonché a sperimentarsi nelle relazioni imparando gradualmente ad acquisire una posizione di maggiore centralità, arginando al contempo atteggiamenti di sottomissione e di compiacenza, che spesso portano queste persone ad essere sfruttate e manipolate dagli altri, alimentando lo schema di sé come deboli e incapaci.

 

 

 

 

 

Per saperne di più sull’argomento

American Psychiatric Association, 2014. Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Quinta edizione. DSM-5. Milano: Raffaello Cortina Editore

 

Beck, A.T., Freeman, A. et al., 1990. Cognitive Therapy of Personality Disorder, Guilford, New York (trad. it. Terapia Cognitiva dei Disturbi di Personalità, Meduiserve, Milano, 1993)

 

Birtchell, J., Borgherini, G., 1999. A New Interpersonal Theory and the Treatment of the Dipendent Personality Disorder, in J. Derksen, C. Maffei, H. Groen (a cura di), Treatment of Personality Disorders, Plenum Publisher, New York

 

Dimaggio G., Semerari A., 2007. I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Stati mentali, meta rappresentazione, cicli interpersonali. Laterza

 

Lorenzini, R., 2016. Ciottoli di Psicopatologia Generale, Elogio della tiepidezza (Nr. 15)

https://www.stateofmind.it/2016/12/elogio-tiepidezza-disturbo-dipendente/