Di
Giulia Paradisi

Da terapeuta mi è capitato più volte di conoscere persone che, al primo appuntamento, si presentassero con incertezza e, talvolta, con una certa confusione rispetto agli obiettivi dei colloqui psicologici e, più in generale, alle modalità di svolgimento della psicoterapia.

Questo è del tutto naturale perché, per tanti, quell’incontro rappresenta la prima volta: dopo aver fissato un appuntamento ci si ritrova nella stanza del terapeuta, magari dopo averlo immaginato più volte, senza sapere di preciso che cosa aspettarsi, che cosa dire, come formulare le proprie richieste o “da dove partire” per essere il più esaustivi possibile. Ci sono casi, poi, in cui la persona che si presenta non ha ben chiaro il motivo per cui si è sentita spinta a chiedere aiuto: sa soltanto che si trova in quella stanza per uno stato d’animo che la tormenta o per un malessere di cui vuole comprensibilmente liberarsi. Le frasi più comuni, spesso pronunciate con un certo imbarazzo, sono: “Non so da dove cominciare..”, “Che cosa devo dire.. può aiutarmi Lei con qualche domanda?”, “Per me è difficile perché non l’ho mai fatto…”, “Non saprei esattamente perché sono qui..”, ecc.

Non ultimo, poi, quel terapeuta a cui ci si ritroverà a raccontare le proprie vicende personali è un perfetto sconosciuto. Tutti questi aspetti, come è intuibile, possono contribuire a creare preoccupazioni e ansie al potenziale futuro paziente, che spesso arriva in studio con delle idee che si è costruito a partire da input arrivati da fonti numerose ed eterogenee: racconti di conoscenti che ci sono già passati, storie raccontate nelle tante pellicole cinematografiche che si sono occupate del tema, letture di riviste che trattano della materia, oppure di rubriche in stile “posta del cuore” che dispensano consigli su come interpretare i sogni o in che modo affrontare i momenti di crisi esistenziale. Inoltre, il come andrà la seduta, è anche condizionato dal personale modo dell’individuo di interpretare la realtà ovvero dalle sue rappresentazioni del mondo, degli altri e di se stesso, dalle sue aspettative riguardo alle relazioni interpersonali e dagli schemi che guidano il suo modo di agire e di rapportarsi al prossimo e all’esistenza in generale.

Ognuno di noi è infatti solito fare delle previsioni su come gli altri si comporteranno, su cosa pensano e cosa provano, su cosa fa loro piacere e cosa dispiace loro e tutto ciò permette di anticipare il loro agire. Queste aspettative si creano in ognuno di noi a partire da un mix di fattori che, incontrandosi, inevitabilmente si intrecciano: le nostre esperienze passate, l’ambiente culturale e familiare all’interno del quale siamo nati e cresciuti, il modo in cui le nostre figure di riferimento si sono occupate di noi e anche il temperamento di cui disponiamo fin dalla nascita. E’ però esperienza comune constatare che queste “teorie” su come sono fatti gli esseri umani e su cosa ci si debba aspettare dalla relazione con loro costituiscano delle aspettative fallaci e, dunque, fonte di delusioni interpersonali: un individuo può dunque essere guidato da teorie su di sé e sugli altri errate e dannose (Lorenzini & Sassaroli, 2000).

Questa riflessione può benissimo applicarsi alla relazione terapeutica e al percorso di cura a cui la persona sofferente si appresta ad avvicinarsi. Ad esempio, se un uomo tendenzialmente introverso è cresciuto con dei genitori molto autoritari, protettivi e poco propensi a promuovere l’autonomia del figlio, potrebbe succedere che questi a poco a poco sviluppi un’idea di sé come poco capace di agire in prima persona e di influire sugli eventi, e che questa credenza lo privi di qualsiasi possibilità di autodeterminazione, così da sentirsi completamente in balìa degli altri.

In un caso simile il processo di cura, la psicoterapia, potrebbe essere vista da quest’uomo come l’affidamento a una persona potente in grado di produrre cambiamenti in ciò che lo circonda: più che di un terapeuta si tratta di una sorta di genio della lampada pronto a realizzare i desideri di Aladino o di un giudice insindacabile in grado di convincere gli altri che stanno comportandosi male con lo sfortunato paziente. Nel frattempo, in attesa di compiere il miracolo, il minimo che il terapeuta possa fare è consolarlo per le disgrazie che gli sono capitate, comprenderlo ed esprimergli tutta la sua solidarietà (Lorenzini & Sassaroli, 2000).

Altre volte ancora, le idee che ci facciamo della psicoterapia sono state influenzate dal retaggio della psicoanalisi freudiana classica e dalle immagini del lettino su cui il paziente parla per ore che sono impresse nella mente di ognuno di noi, ma anche dalla mala-informazione che spesso veicola concetti errati e che sovrappone figure talvolta molto lontane tra loro (es. lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psichiatra, il counselor, il coach, ecc).

Ma vediamo di chiarire meglio alcuni dubbi su cui spesso le persone si costruiscono delle fantasie non corrispondenti alla realtà, e di sfatare dei luoghi comuni dove facilmente si annidano equivoci ed ambiguità che portano a farsi idee spesso lontane di che cosa sia lo psicologo, lo psicoterapeuta, le varie tipologie dei percorsi di cura e, inoltre, di tutto quello che non è psicoterapia. Infine, un breve accenno alle caratteristiche della psicoterapia cognitiva, di cui il nostro centro si occupa, e delle fasi in cui si articola un percorso psicoterapico.

 

Quale è la differenza tra psicologo e psicoterapeuta

Senza dilungarmi nell’introduzione, riporterò le caratteristiche più significative di uno psicologo e di uno psicoterapeuta, tratte da un portale (www.psychiatryonline.it) che, a mio avviso, bene illustra gli aspetti di somiglianza e di differenza tra le due figure, spesso confuse e sovrapposte:

Psicologo: è necessaria una laurea in Psicologia legalmente conseguita presso un’Università Italiana, un Tirocinio Formativo della durata di un anno effettuato con la supervisione di un tutor professionista iscritto all’Ordine Nazionale degli Psicologi Italiani e il superamento dell’Esame di Stato che consente l’iscrizione all’Albo degli Psicologi della Regione di appartenenza, obbligatoria per esercitare. Tale qualifica gli permette di intervenire su problematiche affettive, relazionali e sociali, sia in età evolutiva (infanzia e adolescenza), sia in età adulta (individuale, coppia, gruppo o famiglia). Lo psicologo può fare diagnosi, valutazioni, interventi di prevenzione, ma non “cura”, non prescrive farmaci, ma utilizza la relazione, l’ascolto, l’empatia, la parola, come strumenti, naturalmente utilizzandoli secondo specifiche tecniche basate sulle teorie fondamentali alle quali fa riferimento il professionista.

Psicoterapeuta: è un laureato in psicologia o in medicina con una specializzazione di almeno quattro anni in una scuola riconosciuta ufficialmente dallo stato italiano. Questo consente l’iscrizione all’elenco degli psicoterapeuti dell’Ordine degli Psicologi. Lo Psicoterapeuta è colui che “cura” la patologia, e aiuta la persona a tornare ad una condizione di benessere, magari migliore di quello precedente come problemi di origine esistenziale (fobie, traumi, lutti, separazioni, timidezza, complessi, ecc.) o psicopatologie (disturbi d’ansia, attacchi di panico, depressione, disturbo ossessivo compulsivo, ipocondria, ecc.).  Non utilizza farmaci, benché possa prevedere la combinazione di psicoterapia e psicofarmacologia.

La differenza tra gli psicoterapeuti sta nella loro formazione a modelli diversi di terapia, esistono diverse Scuole di specializzazione che propongo percorsi riferiti ad approcci teorici e metodologici anche molto differenti tra loro, come per esempio il modello di terapia breve strategica, di terapia psicoanalitica, psicodinamico, sistemica, cognitiva, comportamentale, etc. Per questo i modelli di riferimento seguiti dallo psicoterapeuta possono condurre a terapie con tempi ed esiti estremamente diversi (http://www.psychiatryonline.it/node/4603).

 

Cosa NON È uno psicologo o uno psicoterapeuta

Come già accennato, ad oggi sembra esserci molta confusione sulle varie figure di aiuto alla persona e, di frequente, si sentono dire molte inesattezze relative ai ruoli che esse rivestono. In questo caso, è mia intenzione specificare meglio che cosa NON SIA lo psicologo e lo psicoterapeuta, citando due tra le professioni di cui si sente più spesso parlare, ma che possono assumere contorni sfumati a seconda della fonte da cui derivano tali informazioni: il counselor ed il coach.

Counselor: il Counseling è una “relazione d’aiuto”, professione disciplinata dalla Legge n°4 del 14 gennaio 2013. Essa consiste nell’applicazione da parte del professionista di un insieme di tecniche, abilità e competenze tese a facilitare il cliente nell’uso delle sue risorse personali, affinché questi possa trovare la soluzione per un problema che crea disagio esistenziale e per migliorare complessivamente la qualità della sua vita. Lo scopo del Counseling è quello di offrire al cliente l’opportunità di esplorare e riconoscere i propri schemi d’azione e di pensiero e aumentare il livello di consapevolezza, così da saper utilizzare al meglio le proprie risorse personali per gestirsi in modo efficace e raggiungere un maggiore benessere.

Il counselor opera nel campo della prevenzione della malattia e in quello della promozione della salute, così come intesa e definita dalla Carta di Ottawa nel 1986. Il counselor possiede competenze specifiche per la promozione del benessere dell’individuo e non esercita attività sanitarie.

Per il suo specifico settore di intervento il counselor non va confuso con altre figure professionali, quali lo psicologo, lo psicoterapeuta, etc. Infatti l’attività di counseling non prevede l’utilizzo di tecniche e metodologie di intervento proprie delle figure professionali citate, come: la somministrazione o prescrizione di farmaci, l’utilizzo di test psicodiagnostici e quelle attività che nel dettaglio sono proprie della figura dello psicologo o dello psicoterapeuta.

I counselor si occupano di persone sostanzialmente sane che hanno bisogno di colloqui di sostegno o di aiuto per affrontare problemi relazionali o decisionali senza la necessità di una cura di tipo psicoterapeutico o farmacologico che richiede competenze e specializzazioni diverse.

Coach: Come per il counseling, in Italia non è una professione regolamentata: lo Stato non indica cioè i requisiti minimi necessari per fare il coach. Non esiste alcuna normativa di riferimento, nessun percorso formativo obbligatorio, né tanto meno l’obbligo per il professionista di iscrizione ad un albo professionale. In tale quadro normativo “chiunque può definirsi coach”.

La parola “coaching” è apparsa per la prima volta sul finire del ‘900 negli Stati Uniti per indicare quell’attività specifica che vede un allenatore impegnato a sostenere, guidare e motivare una squadra o un singolo atleta per migliorarne le prestazioni in vista delle future competizioni. Da circa una decina di anni, però, questo termine si è esteso e generalizzato al di fuori dell’ambito sportivo in cui era nato, venendosi a configurare come un intervento indirizzato a un individuo o a un gruppo, con lo scopo di aiutarlo a ottenere risultati ottimali in ambito sia lavorativo che personale.

Diffusosi ultimamente soprattutto in ambito manageriale, il coaching si differenzia dagli interventi di psicoterapia e consulenza poiché non è orientato alla cura di disturbi psicologici o alla risoluzione di specifici problemi, bensì allo sviluppo dei talenti, nella direzione di fare emergere a pieno le potenzialità degli individui a vantaggio di una competenza da sviluppare o di un risultato da migliorare. Professione in rapida e crescente espansione, il coaching trova applicazione nei più diversi ambiti personali e professionali (es. imprenditoriale, individuale).

Dalle figure dello psicologo e dello psicoterapeuta il coaching si vuole distinguere evidenziando il suo essere rivolto a persone libere da disturbi psicologici invalidanti, ovvero persone sostanzialmente indipendenti ed autonome che desiderano migliorare le proprie prestazioni (personali o lavorative) e ricercano quindi un aiuto esterno che possa facilitare questo processo di miglioramento. Dai counselor, invece, il coaching tende a distinguersi non presupponendo come necessario per il coach il possedere competenze specifiche sul contesto aziendale (o sportivo) d’intervento. Certo, tali competenze se presenti possono facilitare il processo di coaching, ma dal coach stesso non vengono usate per fini diagnostici o valutativi (http://www.psychiatryonline.it/node/4603).

 

Trasparenza del professionista

Una volta che la persona è riuscita ad orientarsi tra le varie tipologie di percorsi a disposizione, sceglierà naturalmente in base alle sue personali esigenze e necessità. Siccome il professionista psicologo e/o psicoterapeuta è tenuto alla trasparenza ed ha l’obbligo di risultare iscritto all’Ordine regionale di appartenenza, il futuro cliente/paziente potrà in qualsiasi momento consultare e verificare i titoli del professionista consultando il sito internet dell’Ordine degli Psicologi della sua regione o il sito dell’Ordine Nazionale degli Psicologi, nel quale compaiono i nomi di tutti i professionisti operanti sul suolo italiano. Di seguito il link per verificare l’appartenenza all’Albo dei vari professionisti: https://areariservata.psy.it/cgi-bin/areariservata/albo_nazionale.cgi.

 

Costi delle sedute

Ogni Ordine professionale ha un tariffario di riferimento, solitamente non rigido, che fissa una tariffa minima e una massima a cui il professionista si deve attenere. Quindi, anche per lo psicologo o per lo psicoterapeuta, non esiste una tariffa unica per il servizio erogato. Ma è comunque diritto del cliente/paziente chiedere informazioni in anticipo al professionista relativamente al costo della prestazione di cui si vorrebbe avvalere.

 

Quale psicoterapia per quale paziente?

Come già descritto in precedenza, la differenza tra uno psicoterapeuta e un altro è la tipologia di formazione professionale che ha intrapreso dopo il percorso universitario. Ci sono tante scuole di specializzazione in Italia e gli orientamenti sono molteplici: ci si può così ritrovare nello studio di un terapeuta psicodinamico, gestalt, cognitivista, emdr, comportamentista, sistemico-relazionale, strategico, transazionale, costruttivista, sensomotorio, rebt, schema therapy, dialettico-comportamentale, e chi più ne ha più ne metta. Allora il dilemma è: quale scegliere? Spesso le persone che decidono di intraprendere un percorso psicoterapico piuttosto che un altro lo fanno dopo essersi documentate su internet, oppure dopo aver chiesto consiglio e referenze all’amica o al conoscente che lo ha già iniziato da un terapeuta “dal quale si è trovato bene”. Anche perché affidarsi alle informazioni che ad oggi abbiamo a disposizione grazie ai media è spesso confondente e fuorviante, soprattutto per la mole ingente delle informazioni stesse di cui possiamo usufruire e che, talvolta, ci rende difficile selezionare sulla base delle nostre esigenze. Quello che è mia intenzione fare in questo articolo è chiarire le idee del lettore riguardo alla psicoterapia cognitiva, che esercitiamo nel nostro centro di Grosseto, partendo dal presupposto che non esiste un modello migliore o uno peggiore, ma una varietà di approcci che portano (o quantomeno dovrebbero portare) allo stesso esito, ovvero la cura e il benessere della persona, con modalità diverse e tecniche peculiari a seconda dell’indirizzo teorico di riferimento utilizzato dal terapeuta.

 

Caratteristiche della psicoterapia cognitivo-comportamentale

La Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (Cognitive-Behaviour Therapy, CBT) è attualmente considerata a livello internazionale uno dei più affidabili ed efficaci modelli per la comprensione ed il trattamento dei disturbi psicopatologici (le seguenti informazioni sono tratte dal portale www.apc.it):

Tale approccio postula una complessa relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti evidenziando come i problemi emotivi siano in gran parte il prodotto di credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo, a dispetto della sofferenza che il paziente sperimenta e delle possibilità ed opportunità di cambiarle, a causa dei meccanismi di mantenimento.

La teoria di fondo, sottolinea l’importanza delle distorsioni cognitive e della rappresentazione soggettiva della realtà nell’origine e nel mantenimento dei disturbi emotivi e comportamentali. Ciò implica che, non sarebbero gli eventi a creare e mantenere i problemi psicologici, emotivi e di comportamento, ma questi verrebbero piuttosto largamente influenzati dalle strutture e costruzioni cognitive dell’individuo (assunto già condiviso ai tempi del filosofo stoico Epitteto).

La psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) si propone, di conseguenza, di aiutare i pazienti ad individuare i pensieri ricorrenti e gli schemi disfunzionali di ragionamento e d’interpretazione della realtà, al fine di sostituirli e/o integrarli con convinzioni più funzionali.

La CBT ha assunto il ruolo di trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia, così come attestano recenti documenti diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS).

La CBT si caratterizza per le seguenti peculiarità:

  • è scientificamente fondata: l’intervento clinico è strettamente coerente con le conoscenze sulle strutture e sui processi mentali desunte dalla ricerca psicologica di base. Inoltre, è stato dimostrato attraverso studi controllati che i metodi cognitivo-comportamentali costituiscono una terapia efficace. La CBT, infatti, ha mostrato risultati superiori o almeno uguali agli psicofarmaci nel trattamento della depressione e dei disturbi d’ansia, ma assai più utile nel prevenire le ricadute.
  • è orientata allo scopo: il terapeuta cognitivo-comportamentale lavora insieme al paziente per stabilire gli obiettivi della terapia, formulando una diagnosi e concordando con il paziente stesso un piano di trattamento che si adatti alle sue esigenze, durante i primissimi incontri. Si preoccupa poi di verificare periodicamente i progressi in modo da controllare se gli scopi sono stati raggiunti.
  • è pratica e concreta: lo scopo della terapia si basa sulla risoluzione dei problemi psicologici concreti. Alcune tipiche finalità includono la riduzione dei sintomi depressivi, l’eliminazione degli attacchi di panico e dell’eventuale concomitante agorafobia, la riduzione o l’eliminazione dei rituali compulsivi o dei comportamenti alimentari patologici, la promozione delle relazioni con gli altri, la diminuzione dell’isolamento sociale, e cosi via.
  • è collaborativa: paziente e terapeuta lavorano insieme per capire e sviluppare strategie che possano indirizzare il soggetto alla risoluzione dei propri problemi. La CBT è, infatti, una psicoterapia sostanzialmente basata sulla collaborazione tra paziente e terapeuta. Entrambi sono attivamente coinvolti nell’identificazione e nella messa in discussione delle specifiche modalità di pensiero che possono essere causa dei problemi emotivi e comportamentali che attanagliano il paziente.
  • è a breve termine: la CBT è a breve termine, ogniqualvolta sia possibile. La durata della terapia varia di solito dai quattro ai dodici mesi, a seconda del caso, con cadenza il più delle volte settimanale. Problemi psicologici più gravi, che richiedano un periodo di cura più prolungato, traggono comunque vantaggio dall’uso integrato della terapia cognitiva, degli psicofarmaci e di altre forme di trattamento.

 

Come si svolge la psicoterapia cognitiva: le fasi e le modalità

Fase di valutazione iniziale: nella prima parte della psicoterapia si raccolgono le informazioni della persona, si dedica spazio all’ascolto e alla ricostruzione del funzionamento del problema o dei problemi che essa porta, si cerca di stabilire un clima sereno e collaborativo che permetta al clinico e al paziente la tranquillità e la sicurezza di potersi raccontare in profondità. In questa fase si possono somministrare dei test e degli strumenti diagnostici che integrino il lavoro svolto mediante il colloquio; oppure si potrà valutare l’opportunità di avvalersi anche dell’aiuto e del supporto di altri professionisti, nel caso in cui ci emerga tale necessità (psichiatra, logopedista, educatore, avvocato, assistente sociale, ecc).

Un luogo comune da sfatare è quello che addita la psicoterapia cognitiva come superficiale ed eccessivamente centrata sul presente. Questo non è vero: il paziente sarà, sì, portato principalmente a concentrarsi e a cercare di risolvere il suo “problema” attuale, ma sarà parte integrante della psicoterapia capire dove sono nate le sue difficoltà, dove abbia appreso alcune credenze disfunzionali, o le sue tipiche modalità comportamentali, perché questo è utile e talvolta indispensabile per dare un senso alla sofferenza che sperimenta oggi.

L’integrazione di alcune eventuali altre tecniche sulle quali il professionista è formato (schema therapy, emdr, ecc), permetterà al paziente di poter rivisitare il suo passato e la sua storia di vita in una particolare modalità, così da potersene liberare e facendo in modo che nulla condizioni più così fortemente il suo presente. Alla fine della fase di valutazione, il paziente e il terapeuta decideranno insieme gli obiettivi da perseguire e inizieranno il percorso di cura vero e proprio, se questo verrà valutato da entrambi necessario e conveniente per il paziente stesso. Questa fase è molto importante anche per stabilire la durata minima dell’intervento terapeutico, la frequenza delle sedute e le varie regole della terapia (pagamenti, orari, telefonate extra tra paziente e terapeuta, ecc).

Fase di intervento: le competenze specifiche del terapeuta e le conoscenze di alcune tecniche permetteranno al percorso di essere differenziato e centrato sui bisogni della persona. Questa è la fase che avrà come obiettivo quello di perseguire gli obiettivi della terapia attraverso la discussione e il dialogo, l’esposizione alle situazioni temute, gli esercizi immaginativi, a seconda dei problemi, delle esigenze ma anche delle preferenze del paziente. In questa fase, generalmente alla fine della stessa, si potranno ripetere i test effettuati durante la valutazione per valutare se gli obiettivi terapeutici sono stati raggiunti e a che punto il paziente si trova.

Fase di chiusura: se la persona sente di stare meglio meglio, e ritiene che i suoi problemi siano risolti o comunque sufficientemente ridotti e il suo benessere aumentato, si va verso la conclusione della terapia. Solitamente in questa ultima fase si diradano gli incontri e si prevede anche un termine del trattamento più definito, così anche da stabilire degli incontri che si chiamano di follow-up, ovvero di richiamo, ad esempio dopo sei mesi/un anno dalla fine del percorso, così da monitorare il mantenimento dei risultati raggiunti e la continuità del benessere della persona. Spesso in questa ultima parte si fa anche un lavoro di “prevenzione delle ricadute”, cioè si cerca di affrontare con il paziente eventuali difficoltà future che potrebbe incontrare dopo la conclusione della terapia e si ipotizzano strategie di risoluzione di tali problematiche.

 

 

 

Per saperne di più sull’argomento

Lorenzini, R., Sassaroli, S. (2000). La mente prigioniera

Portali internet:

https://www.apc.it/

https://www.apc.it/chi-siamo/la-psicoterapia-cognitiva/la-terapia-cognitivo-comportamentale/

https://www.psychiatryonline.it

http://www.psychiatryonline.it/node/4603

 

Consiglio Nazionale Ordine Psicologi:
http://www.psy.it/