di Cecilia Lombardo

Il termine viene da “ladder” che in inglese significa “scala” ed indica uno strumento potentissimo della terapia cognitiva che permette di capire quali sono le motivazioni profonde della persona, il modo in cui pensieri, emozioni e azioni si organizzano per realizzare (o provare a farlo) il mondo desiderato o per fuggire dal mondo temuto. A volte è utilizzato spontaneamente dalle persone nella vita quotidiana quando fanno il gioco del perché.

Le azioni della vita quotidiana come alzarsi, vestirsi, andare al lavoro, uscire per un aperitivo sono guidate da obiettivi riguardanti progetti che si stanno realizzando in quel periodo, ma questi, a loro volta, sono al servizio di piani e strategie esistenziali più importanti e che riguardano tempi più lunghi, ad es. avere successo nel lavoro, mantenere o costruire legami con alcune persone, appartenere ad un gruppo. Essi, ancora, servono per realizzare quello che riteniamo essere lo stato desiderato da un punto di vista concreto e da un punto di vista interiore, insomma ciò che per ciascuno dà senso e pienezza alla vita. Ogni azione mira a raggiungere un obiettivo importante, a sua volta per uno ancora più importante e così via.

In sintesi gli scopi che guidano il nostro comportamento sono organizzati gerarchicamente costituendo nel loro insieme l’aspetto motivazionale del sistema cognitivo.

Scopi terminali e scopi strumentali

Il vertice di questa piramide motivazionale, lo scopo ultimo è uguale per tutti e geneticamente determinato, per noi come per tutti i viventi, e si tratta della “sopravvivenza e della riproduzione del proprio patrimonio genetico”. Gli scopi per così dire “penultimi” per noi umani, animali sociali, hanno a che vedere con l’autostima e i legami affettivi, ovvero la percezione del nostro valore personale e la percezione di essere amati, accettati, compresi, inclusi. È proprio il venir meno di una o entrambe queste condizioni che rende conto della quasi totalità della sofferenza emotiva.

Quello che ci differenzia e che dunque è interessante esplorare è l’area degli scopi “intermedi”, ovvero quegli stati di sé e del mondo che per la nostra storia di apprendimento sono indispensabili e strumentali per il raggiungimento degli scopi penultimi. Per alcuni potrà essere “essere ricco”, per altri “ essere potente”, per altri ancora “essere benvoluto da tutti” e così via. E’ evidente che le esistenze saranno molto diverse proprio a seconda degli scopi intermedi. Accanto ad essi ci sono anche i cosiddetti “antiscopi” ovvero quelle condizioni ritenute intollerabili perché minerebbero certamente il raggiungimento dello scopo ultimo ad es: “essere sconfitto”, “restare solo”, “sbagliare”. In sostanza è come se avessimo una serie di punti attrattori verso cui andare e una serie di buchi neri da cui fuggire il più lontano possibile (marginalmente va notato che mentre l’avvicinamento agli attrattori comporta un impegno in positivo e può produrre soddisfazione, la fuga è potenzialmente infinita).

Il laddering up o tecnica della freccia discendente

Per esplorare l’area degli scopi intermedi e penultimi salendo nella piramide gerarchica degli scopi si utilizza il cosiddetto “laddering up”, che consiste nel chiedere al soggetto perché fa una certa cosa e poi, riprendendo la sua risposta, continuare a chiedergli perché ciò lo considera un bene o perché è utile, a che serve, perché è meglio. In alternativa, al contrario, chiedere perché una condizione temuta è negativa, temibile, brutta, sgradevole, andando avanti con questo tipo di domande fino a che compare l’immagine terrifica, la situazione esistenziale peggiore.

Si parte da un episodio in cui si è provato un’emozione calda, molto intensa. Lo zoom va sul pensiero o l’immagine mentale collegata all’emozione e da lì parte la scalata verso gli scopi via via più alti e quindi più importanti per la persona, di cui l’emozione forte è la guardiana, come un Cerbero alle soglie degli inferi.

Di seguito l’esempio di una paziente, Martina, con forti timori agorafobici, che s’interroga sul contenuto ultimo della sua ansia e in un dialogo interiore delinea passo dopo passo il disastro da cui la sua ansia la mette in fuga.

Guardo la TV e appare une veduta panoramica della città di Milano. Immagine interna che mi causa panico: l’idea di potermi trovare in quella situazione mi fa paura.

Provo a fare il Laddering:

Cosa mi fa paura? La folla di gente delle città in generale. Milano in particolare non mi attrae.

Sono le immagini dei palazzi alti, anonimi che mi fa paura. Gli estranei mi fanno paura. L’idea di trovarmi lì mi fa paura perché penso di non avere risorse per difendermi. Difendermi da cosa? Non è la delinquenza o un attentato la minaccia. L’esposizione agli altri mi fa paura.

Cosa potrebbe accadere? Potrei avere un attacco di panico.

Mi sembra ci sia contemporaneamente un giudizio sull’emozione: non so districarmi nelle cose della vita. L’ansia mi conferma la mia diversità e la mia incapacità di risolvere questo tipo di problematiche. Penso a come mi sentirei se mi trovassi li. Ma chi mi costringerebbe ad andare lì? Non lo so, magari una guerra. D’altro canto, se anche nessuno mi costringesse, perché ho questo limite?

Questa è la parola chiave: LIMITE. Perché il limite mi fa paura anche solo se nominato?

Limite = inadeguatezza. Visione a tunnel: se sono inadeguata sono destinata a soffrire per sempre. Cerco di decostruire la visione a tunnel. Ma l’ansia resta. Allora c’è altro.

Ora devo immaginarmi a Milano, in quella inquadratura→ mi sento sola (mi mancano gli appigli affettivi), non sono in grado da sola di affrontare il mondo lontano da casa.

Casa = altri a cui aggrapparsi.

Fuori casa = sola e in pericolo.

Quali sono i pericoli? Sentirsi male. Non posso chiamare il 118 se mi sento male? Sì, ma potrebbe non essere sufficiente. Potrebbe essere un problema legato all’ansia che nessuno può risolvere. Si può risolvere solo tornando a casa. Cosa accadrebbe? Che dovrei chiamare qualcuno e farmi venire a “salvare”.

lo scenario peggiore: e se nessuno potesse venirmi a salvare? O muoio o impazzisco.

Tutto verte sulla mia percezione di non potermi salvare da sola o comunque sul fatto che

sola = in pericolo.

Più avanti di così non riesco.

Potremmo riassumere in questo modo

L’analisi accuratissima di Martina porta ad una biforcazione: una strada indaga le conseguenze concrete di un eventuale attacco di panico in una metropoli, ed è quella riportata nello schema, l’altra rimane aperta ed è di commento al panico, in cui è presente l’equazione panico = limite = inadeguatezza. Questa parte si dovrebbe ulteriormente chiarire chiedendole “e se sei inadeguata che succede?” e poi avanti ancora.

L’errore in cui è facile cadere è fermare l’indagine quando si trova sensata e giustificata la risposta del soggetto e ci si sente stupidi a fare ulteriori domande su ciò che appare ovvio. In realtà è solo che intervistatore e intervistato sono giunti al punto di convergenza nel modo di vedere le cose. A nessuno o quasi piace l’idea di essere solo al mondo, oppure di morire o di impazzire, ma il motivo per cui tale eventualità sia da rifuggire varia da persona a persona, ognuno ha il suo universo di significati e ognuno di noi, nella sua storia di vita impara che una condizione in particolare è un evento intollerabile, “fine del mondo”. Persino la morte potrebbe rimandare ad un danno ulteriore. Chi avrà la determinazione di fare la domanda “e qual è il problema se muori? Cosa succederebbe di tanto orribile?” scoprirà quanti diversi temi ci siano dietro l’imbuto comune della paura della morte, che può essere scocciante per tanti diversi motivi.

Quando ci si ferma? Quando ci si accorge che la persona non esprime concetti ulteriori ma ripete con parole nuove e sinonimi le stesse cose. Vuol dire che siamo arrivati al confine dell’area della consapevolezza. Del resto lo scopo ultimo della sopravvivenza e della riproduzione non sono sempre rappresentati coscientemente, di solito percorriamo queste strade perché è meglio del contrario.

L’utilità di questa tecnica

Il laddering up restituisce un senso all’esperienza: si scopre che una condotta di cui ci si rimprovera (per es. evitare i mezzi pubblici o non riuscire a dire di no) o un’emozione la cui intensità appare ingiustificabile sono a difesa di scopi, motivazioni fondamentali per la persona, e ne influenzano l’agire per lo più sotto la soglia della consapevolezza.

Messe nero su bianco, le catastrofi delineate quando si indaga un antiscopo (una fuga da) spesso appaiono meno incombenti. Quando i propri più acuti timori sono resi espliciti è più facile prenderne una distanza critica, si percepisce che quello è un modo di vedere la situazione, non vale per tutti, non è assoluto. Per riprendere l’esempio di Martina, un’altra persona che avesse la paura di avere un attacco di panico, potrebbe sentirsi più al sicuro in una grande città, se si rappresentasse gli altri come capaci di fornire aiuto in caso di bisogno, se pensasse che gli eventuali soccorsi sarebbero più tempestivi ed efficaci che in un piccolo paese.

Durante il lavoro di terapia ogni scenario immaginato nel laddering viene sottoposto al vaglio razionale per scoprire che il passaggio da un gradino a quello successivo della scala non è così logico, così necessario, ad esempio sull’eventualità che Martina teme di non trovare aiuto si può chiederle “potrebbero esserci alternative a questa ipotesi?”, “cos’altro potrebbe accadere?”, “si potrebbe fare qualcos’altro (di diverso dal comportamento sintomatico) per prevenire la catastrofe?”, e rispetto al timore di morire o di impazzire a causa del panico “quali prove hai a sostegno di quest’ipotesi?” , “quali prove hai del contrario?”.

In aggiunta un passaggio fondamentale della terapia è la decastrafizzazione dello scenario temuto, ad es. “immagina di avere un attacco di panico e che davvero nessuno intorno a te ti aiuti e nessuno da casa arrivi a soccorrerti, certo, sarebbe molto brutto, ma poi che accadrebbe? Tu cosa potresti fare?” Insomma ci si racconta come potrebbe andare avanti la storia: la situazione apparirebbe sempre penosa, ma tollerabile.

In sintesi, questa tecnica aiuta a ricostruire il mondo di significati della persona, comprenderne gli scopi centrali, i temi di vita, le convinzioni su di sé e sul mondo. Da questa panoramica sul funzionamento del soggetto si può poi favorire il cambiamento, attraverso altre tecniche cognitive, che promuovono la rassicurazione (non è poi così probabile quello che temi) e l’accettazione (sarebbe una situazione molto brutta, ma sarebbe sostenibile).

Bibliografia

  • Armezzani M., Grimaldi F., Pezzullo L. “Tecniche costruttiviste per la diagnosi psicologica” Ed. Mc Graw Hill, 2003.
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  • Kelly G.A. The psychology of personal constructs, vol. 1. New York: Academic Press(1955). Traduzione italiana “La psicologia dei costrutti personali” Raffaello Cortina Editore, 2004
  • Perdighe C. e Mancini F. “Elementi di Psicoterapia Cognitiva – II edizione”. Giovanni Fioriti Editore, 2016.