di Cecilia Lombardo

Sono rimasta scioccata, da mamma, la volta in cui diversi anni fa un’amica mi chiese un parere, da psicologa, su un racconto del figlio. Il piccolo, che allora frequentava il primo anno di scuola dell’infanzia statale, riferiva che, quando all’asilo un bimbo piangeva, tutta la classe in coro cantava questo ritornello: “piccinaccio – cha cha cha”. Di per sé potrebbe non sembrare troppo grave e probabilmente i nostri genitori e nonni ci hanno raccontato aneddoti sulle critiche e sulle punizioni subite (dai ceci su cui inginocchiarsi alle bacchettate sulle mani) che fanno sembrare questa canzoncina una piccola burla per esortare il bimbo di turno a “farla meno lunga”.

Da John Bowlby in poi, anni e anni di studi sull’infanzia e sulle condizioni ottimali per una crescita serena dei cuccioli d’uomo non sono passati invano e quindi ora possiamo dire con certezza che la ridicolizzazione sistematica di un momento di sconforto, quale ne sia la ragione, è un’esperienza di umiliazione profonda e di solitudine che può incidere molto negativamente sull’idea di sé e degli altri. L’impatto di un simile evento sarebbe sgradevole per tutti: immaginiamo per un attimo di avere intorno amici, colleghi e magari il nostro superiore che, distribuiti a cerchio intorno a noi, ci dicono unanimemente quanto siamo stupidi e patetici. Siamo grandi e vaccinati, ma fare spallucce non sarebbe semplice, si possono provare diverse emozioni in questa circostanza e tutte negative: vergogna, rabbia, tristezza, per dirne alcune. Sbollirebbero poi, a chi più velocemente, a chi meno, ma per qualsiasi motivo ci si senta additati e criticati, solo in un secondo momento potremmo recuperare un’idea positiva di noi stessi, ricordarci delle nostre qualità, degli affetti in attivo e dei successi e magari archiviare l’esperienza nella cartella “ingiustizie subite”, “so’ tutti stronzi”, “figuracce inenarrabili”, “era meglio se nascevo lucertola”. Faldone da risigillare poi con cura.

Nei bambini l’idea di sé e del mondo è in costruzione: è attraverso l’adulto significativo che impariamo cosa possiamo aspettarci dagli altri e che tipo di persone siamo. Per questo le ferite che si subiscono nell’infanzia possono sanguinare a distanza di molto tempo. È nell’interazione con le figure di riferimento che capiamo da piccoli se siamo amabili, se il mondo è un luogo bello e sicuro, se dagli altri devo difendermi o ad essi posso avvicinarmi. Le equazioni sono più o meno queste: sono amato e rispettato, allora vado bene; gli altri mi danno amore e attenzione, allora posso fidarmi del prossimo; sono ignorato e/o maltrattato allora c’è in me qualcosa che non va.

Che siano belli o brutti, tendiamo a mantenere gli schemi su di noi e sul mondo esterno, perché quando si sono formati ci hanno aiutati ad affrontare quello specifico ambiente, erano adattivi. Per esempio se un bambino vive in una famiglia che offre poca attenzione e poco supporto, impara a non chiedere aiuto, perché sa che non arriverà, diventa più autonomo possibile in quanto nel suo sistema familiare tale atteggiamento minimizza la frustrazione. Questa caratteristica rimarrà stabile nel tempo e verrà generalizzata in altri ambienti.

 

La relazione di cura può diventare pericolosa

Il lavoro di educatore, che sia dentro una scuola o che sia a casa in qualità di genitore, zia o nonno, è un mestiere difficile, di cui molto si impara sul campo, a volte ci porta a fare i conti con i nostri limiti e con i vissuti dolorosi della nostra infanzia. Ci sono momenti in cui si vorrebbe andare in ferie o anche solo prendersi una pausa, ma non è possibile. Il pianto o i capricci possono sabotare la pazienza e la saggezza di un monaco tibetano, tanto più se si sente che il proprio ruolo viene messo in crisi dal comportamento del bambino: la bizza o un pianto inconsolabile mandano a gambe all’aria il progetto “essere un’ottima madre”, “essere sempre rispettato”, “saper far bene il proprio dovere”, il capriccio diventa allora simbolo di un più ampio insuccesso, e più questo vissuto è doloroso, tanto più è difficile regolare l’emozione conseguente. Si leva l’urlo che fa sobbalzare la vicina che abita tre piani sopra o magari parte lo scatto fulmineo di uno scapaccione ben assestato. Avviene tutto velocemente e non è frutto di un ragionamento cosciente, semplicemente in quel momento quella situazione è intollerabile. Se riuscissimo invece a vedere che la nostra irritazione deriva non dal capriccio in sé, ma dall’affronto che crediamo di subire o dal senso di impotenza, riusciremmo a prendere le distanze dalla situazione e a tollerare quel momento aspettando che la tempesta si plachi da sé, oppure potremmo agire per contenere l’emozione del bambino subendone il rifiuto.

Ho motivo di credere che momenti di questo tipo siano capitati a tutti i genitori, siamo umani e prima di avere figli piccoli avevamo una vita più sotto controllo. Non sono le sporadiche scenate a lasciare gravi segni nei bambini, ma comportamenti o molto gravi o sistematici di rifiuto, minacce, trascuratezza, violenza, costrizione, umiliazioni.

 

I luoghi delle ferite dell’anima

Gli eventi molto gravi che mettono a rischio la sopravvivenza, oppure le esperienze dolorose ripetute nell’infanzia incidono profondamente sulla visione di sé e del mondo che poi si stabilizza nel tempo. Ci sono ambiti particolari su cui siamo più sensibili e quindi più traumatizzabili a seguito di esperienze avverse perché corrispondono alle nostre esigenze fondamentali di esseri umani:

  • La percezione di essere in pericolo

Quando viviamo una grave minaccia alla nostra sicurezza o incolumità l’allarme è massimo e siamo portati a sentirci in pericolo anche quando il peggio è passato.

  • Il senso di appartenenza

Essere esclusi, messi da parte, isolati ci fa sentire diversi, “difettosi”.

  • L’autostima e il nostro senso di valore

Insuccessi, fallimenti, trascuratezza, umiliazioni, ma anche abusi di vario tipo sono responsabili della sensazione di non valere.

  • Il senso di responsabilità e di colpa

Il senso di colpa per un evento avverso lo si può provare o perché viene attivamente indotto (“è tutta colpa tua!”) o perché in assenza di spiegazioni alternative tendiamo a credere di essere causa o concausa di quello che è successo.

  • Il senso di controllo

Un evento grave e inaspettato comporta la perdita di prevedibilità sugli eventi e sugli altri, la sensazione di essere allo sbando, senza potere sulla propria vita.

Le ripercussioni di esperienze estreme o molto negative si manifestano anche nei bambini molto piccoli, che pur non essendo in grado di verbalizzare quello che è successo e le loro emozioni, hanno un memoria corporea, implicita, di ciò che è accaduto e li ha fatti sentire minacciati. Quello che viviamo nel bene e nel male, a qualsiasi età, si inscrive nelle nostre cellule nervose e somatiche, va al di là di quello che ricordiamo attivamente e, apparentemente senza spiegazione, arriva come un improvviso senso di soffocamento, un peso sullo stomaco, un formicolio alle gambe, o altro. I bambini possono lamentare disturbi fisici senza una causa medica che li giustifichi, possono iniziare a temere certe situazioni (luce forte/ buio/ un colore/ una persona/ allontanamento da casa, ecc…), che vengono vissute con molta angoscia perché collegate all’esperienza destabilizzante.

 

Promuovere la salute mentale dei bambini:

La resistenza agli urti della vita in gergo tecnico si chiama “resilienza” e può variare in base a tanti fattori genetici e ambientali. Ci sono particolari atteggiamenti del genitore che contribuiscono alla serenità e crescita armoniosa del figlio:

  1. Cogliere e rafforzare gli stati emotivi positivi del bambino

Quando il piccolo è contento o soddisfatto per una piccola conquista il genitore condivide la stessa emozione, partecipando e dando valore a quel momento, es. “ti sei messa le scarpe da sola, bravissima!”, senza aggiungere note di senso opposto, del tipo “era anche l’ora!”.

  1. Legittimare le emozioni negative del bambino

Senza giudicare se la rabbia, la paura, la tristezza del figlio siano opportune, l’adulto riconosce la legittimità di essere impauriti, tristi o arrabbiati. Le emozioni negative non sono un affronto personale, spesso nemmeno quando sono direttamente scagliate contro il genitore: è in opposizione alle figure significative che si scarica la tensione o il malessere, l’adulto può accogliere, contenere, fare da specchio (“capisco che sei molto arrabbiato perché volevi rimanere al parco”). Non significa cedere, ma solo esprimere comprensione. Mantenere il punto, nella dolcezza, meriterebbe un approfondimento, ma esula dagli obiettivi del presente scritto.

  1. Riconoscere le proprie emozioni da adulti

I figli intuiscono immediatamente le emozioni dei genitori e le assorbono. Per quanti sforzi si faccia per nasconderle, i bambini sono infallibili nell’entrare in contatto con le emozioni di chi si prende cura di loro. E se non ne hanno una spiegazione opportuna tendono ad attribuirsene la responsabilità (“è colpa mia se mamma è triste”). Rendersi conto di quello che si prova, di un momento di sconforto, preoccupazione, irritazione è il primo passo per gestirlo e non esserne sopraffatti, riconosciamoci il diritto di sentirci così, di fronte al bambino possiamo fornire una spiegazione semplice ma autentica es. “sono dispiaciuta in questo momento perché ho discusso con zia, ma tra un pochino starò meglio e poi con zia faremo la pace”.

  1. Cogliere e rispettare i tempi del bambino

I bambini hanno i loro momenti di gioco in solitaria, in cui sono molto assorbiti da un’attività e mal tollerano le intrusioni esterne. Possono alternare reclami di coccole con brevi fasi in cui hanno una specie di allergia alle carezze, rispettiamo i loro tempi e accogliamo le richieste di attenzioni e contatto tutte le volte che è possibile, considerando la fase di sviluppo in cui si trova il piccolo e la funzione che la sua pretesa assume.

  1. Tradurre, verbalizzare e spiegare le varie esperienze, emozioni, comportamenti

Volgere in parole un pianto o un gesto di stizza è fondamentale per la capacità del bambino di capire quello che gli sta succedendo e per imparare a regolare le proprie emozioni, gli fornisce un vocabolario emotivo fondamentale per lo sviluppo delle competenze sociali, dell’intelligenza e dell’autocontrollo (“è caduta la torre che avevi costruito e ci sei rimasto male perché era molto bella e ci avevi lavorato tanto”).

L’infanzia è il momento in cui impariamo chi siamo e come orientarci nel mondo. Ci sono esperienze che lasciano tracce negative, ma proprio in questa fase di vita siamo dotati di una grandissima flessibilità. Un ambiente affettuoso e supportivo garantisce il benessere del bambino, attutisce l’impatto degli eventi sfavorevoli e contribuisce a rimarginare le ferite dell’anima.

 

Bibliografia

Attili G. (2012) “L’amore imperfetto”. Società editrice il Mulino, Bologna.

Bowlby J. (1989) “Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento”. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Fernandez I., Maslovaric G., Galvagni M. V. (2011) “Traumi psicologici, ferite dell’anima”. Liguori Editore, Napoli.

Isola L., Mancini F. (2007) Psicoterapia cognitiva dell’infanzia e dell’adolescenza. Franco Angeli Edizioni, Milano.

Lorenzini R., Sassaroli S. (1995) “Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità”. Raffaello Cortina Editore, Milano.