di
Andreina Arcuri
Nel mondo oltre 55 milioni di persone soffrono di demenza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel rapporto “Global status report on the public health response to dementia 2017-2025”, mostra l’urgenza di maggiori sforzi a livello globale poiché il numero è destinato ad aumentare nei prossimi anni, fino a 78 milioni entro il 2030 e addirittura a 139 milioni entro il 2050.
Emerge, quindi, il bisogno di interventi personalizzati per attenuare le manifestazioni di distress nelle persone affette da questa malattia quali: sintomi psicotici, agitazione, aggressività, wandering (o vagabondaggio), insonnia, disturbi dell’umore come depressione, apatia e iperattività.
Se ad oggi ancora non esiste una cura a questa malattia neurodegenerativa, la terapia non farmacologica sembra essere molto utile. Essa è definita come un approccio alla cura che cerca di migliorare il benessere di una persona con demenza senza l’utilizzo di farmaci. Tra queste vi sono la terapia di reminiscenza, l’aromaterapia e la musicoterapia, le quali hanno dimostrato essere interventi utili nelle demenze, non solo per i disturbi comportamentali ma anche apportando dei benefici al benessere e alla qualità di vita, andando a stimolare importanti funzioni cognitive ed emotive.
Sull’onda di tali principi, negli ultimi anni si è sviluppata la Doll Therapy o terapia della bambola.
Kitwood (1997) sostiene che i sintomi della demenza non sono semplicemente il risultato di cambiamenti organici del cervello ma, la conseguenza della relazione tra questi cambiamenti e l’ambiente psicosociale. Per muoversi verso un modello olistico di cura alle persone con demenza, è importante limitare l’uso di farmaci neurolettici ed esplorare altri interventi, allo scopo di migliorarne la cura e la qualità di vita, attraverso un approccio di cura centrato sulla persona.
La Doll Therapy nasce all’interno della terapia del giocattolo, che si è diffusa negli anni ’80 in America e in Australia e prevede l’utilizzo di una bambola da parte del paziente da maneggiare e accudire. E’ stato, infatti, dimostrato come l’uso dei giocattoli nelle persone adulte con demenza, favorisca sentimenti positivi come sicurezza e serenità, ma anche miglioramenti dal punto di vista sociale, grazie ad una più agevole comunicazione con gli altri e alla diminuzione di comportamenti aggressivi.
Gli studi sulla Terapia della Bambola, nell’approccio alla demenza, si sono ispirati alla teoria dell’attaccamento formulata negli anni ’60 dallo psicologo John Bowlby.
Secondo Bowlby, la ricerca costante di contatto reciproco del bambino e del genitore è la conseguenza di un istinto primordiale. I bambini nascono con una tendenza biologicamente programmata a cercare e a rimanere vicini a delle figure di riferimento; questo fornisce nutrimento e confort, oltre a garantire la sopravvivenza del bambino stesso.
Il comportamento di attaccamento si manifesta a seguito del raggiungimento e del mantenimento di una prossimità nei confronti di un’altra persona, figura di attaccamento, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. Secondo Bowlby, prendere in braccio il proprio piccolo che piange è la risposta più adeguata, da parte del caregiver, ad un segnale di disagio espresso dal bambino.
Questo desiderio, di vicinanza e sostegno, può anche avvalersi di un oggetto, grazie al quale l’interazione con gli altri può essere resa più intensa.
Secondo Winnicott, un oggetto transizionale è un qualcosa, solitamente un oggetto fisico, che fornisce conforto psicologico al bambino, sostituendo progressivamente il legame simbiotico madre-figlio.
La bambola sembra agire come un tale oggetto per le persone con demenza. L’attaccamento si realizzerebbe, infatti, in situazioni con forte stress, non familiari e con elevato senso di insicurezza; tutti elementi presenti nei pazienti con demenza. La bambola potrebbe, quindi, fungere da “oggetto transizionale”, un’ancora in un momento di incertezza simile a quella dei bambini nella fase di ingresso nell’età adulta.
Miesen (1992) suggerisce come, il modo in cui alcune persone con la demenza spesso cercano i genitori, sia una chiara espressione di una necessità di attaccamento.
La maggior parte dei sintomi psicologici e comportamentali dei pazienti con demenza, come il ripetere la medesima domanda, piangere, ricercare il contatto fisico possono essere letti tutti come dei modi per soddisfare il loro bisogno di attaccamento. La bambola, in questi casi, potrebbe soddisfare il bisogno di vicinanza, contatto e rassicurazione, riducendo conseguentemente i suddetti sintomi psicologici e comportamentali.
Attraverso un’analisi retrospettiva condotta su anziani con diagnosi di demenza residenti in casa di riposo, Ellingford, James, e Mackenzie (2007) hanno rilevato un aumento di comportamenti positivi (come impegnarsi in attività) e una diminuzione di comportamenti aggressivi nei residenti coinvolti nella terapia della bambola rispetto ai soggetti che non la utilizzavano. Heathcote e Clare (2014) hanno riportato 12 casi di pazienti che hanno mostrato grandi benefici dalla terapia della bambola come: diminuita agitazione, aumento delle interazioni, e un miglioramento dell’appetito. Ulteriori studi hanno riferito che gli anziani con demenza hanno sviluppato relazioni significative e piacevoli con le bambole, sentimenti di attaccamento e orgoglio (Stephens et al., 2013).
Uno dei primi benefici che si possono trarre dalla Doll Therapy è una riduzione dell’agitazione e degli stati d’ansia.
Concentrare l’attenzione sulla bambola e avere nei suoi confronti degli atteggiamenti di dolcezza e affetto sono fattori che aiutano l’anziano a rilassarsi e hanno ripercussioni positive anche sull’alternanza sonno-veglia, limitando l’insonnia, portando così ad una riduzione della terapia farmacologica.
Un altro aspetto positivo è il risveglio di ricordi piacevoli; il semplice gesto di cullare la bambola cantandole una ninna nanna può riportare alla mente emozioni e sensazioni legate a un momento felice della sua vita, promuovendo sensazioni relative alle proprie capacità, quiete e benessere. È importante tenere a mente questo perché i malati, anche quando non riescono a ricordare, mantengono la memoria delle emozioni, quindi, stimolare e far rivivere quelle positive ha effetti benefici sul loro stato d’animo.
La bambola, inoltre, può diventare un mediatore per creare delle relazioni con gli altri residenti della struttura o con i caregiver, riducendo anche l’apatia e stimolando la persona a lasciarsi coinvolgere nelle attività che provengono dal mondo esterno, riducendo gli stati depressivi e migliorando la memoria procedurale.
La Doll Therapy migliora la stimolazione sensoriale attraverso l’utilizzo del tatto e le capacità comunicative di chi la utilizza. Alcuni ricercatori hanno evidenziato anche un aumento dell’autostima degli utenti, sviluppatosi attraverso attività di cura nei confronti della bambola e un maggiore senso sicurezza.
La bambola può aiutare a esprimere bisogni insoddisfatti, ad esempio, l’azione di coccolare e baciare la bambola soddisfano la ricerca di affetto e di sicurezza.
Il malato affetto da demenza si prende cura della bambola, come fosse un bambino, le parla e presta attenzione. Questi sono aspetti fondamentali per attivare la sua sfera emotiva e farlo sentire meno solo anche quando si sentirà smarrito, non riconoscendo luoghi, oggetti o persone. L’utilizzo della bambola può ridurre gli accessi di ira e degli stati d’ansia perché concentrare la propria attenzione su di essa e avere nei suoi confronti atteggiamenti di dolcezza e affetto, aiuta il malato a rilassarsi.
Mackenzie Wood-Mitchell e James (2007) hanno fornito delle linee guida per l’uso della terapia della bambola. Quella utilizzata per la terapia non è una bambola qualsiasi. Essa deve avere delle caratteristiche particolari tra cui: corpo morbido, occhi che si aprono e chiudono per evitare l’angoscia derivante dal fatto che possono pensare che la bambola dorma o sia morta, facce e vestiti diversi e variegati per evitare confusione sul possesso con gli altri ospiti, una particolare morbidezza al tatto, gli arti allargati per essere presa facilmente in braccio.
Viene anche chiamata Empathy Doll perché stimola proprio un senso di empatia, del contatto. Ce ne sono di diversi tipi, in base alle caratteristiche del paziente e alle necessità che la patologia comporta. Ci sono quelle che ricordano un neonato, alcune che stanno sedute, altre che rimangono sdraiate. Ad esempio, se una persona è affetta da wandering, ovvero cammina avanti e indietro tutto il giorno, non potrà avere una bambola troppo pesante, perché sarebbe fonte di affaticamento, ma dovrà averne una più piccola e leggera.
Di solito la bambola viene consegnata chiedendo alla persona se può occuparsene per un periodo limitato.
È la persona che riceve la bambola a decidere se si tratta di un bambino o di una bambola; gli altri dovrebbero limitarsi a rinforzare questa credenza, in modo tale da non creare confusione e rassicurarla.
Non viene lasciata tutto il giorno ma viene utilizzata come attività limitata nel tempo, in modo che la persona non si stanchi.
L’anziano utilizza la bambola come oggetto simbolico per creare una relazione con altri e riesce a riversare parte del naturale desiderio di accudimento e scambio affettivo sul giocattolo che per lui diviene un essere vivente, dotato di esigenze concrete, ma soprattutto emotive.
La terapia della bambola si configura, quindi, come un intervento dinamico tra l’anziano, la bambola e chi sta vicino per ottenere benefici nella comunicazione, nelle relazioni, per avere effetti calmanti e una riduzione dei comportamenti socialmente inappropriati.
Attraverso questa terapia, il malato diventa protagonista, passando dall’essere accudito all’essere accudente. Ma i benefici non sono solo sui pazienti. Essa ha un effetto positivo anche sui caregiver che spesso si sentono impotenti davanti a persone che vivono un malessere talmente complesso e devastante non solo dal punto di vista fisico, ma anche e soprattutto dal punto di vista emotivo. Vedere la persona affetta da demenza sorridere, interagire e provare emozioni positive, fa sentire meno impotenti e riaccende anche solo per poco, una speranza nell’operatore o nel familiare che si prende cura del malato.
Nonostante sia impossibile guarire da questa malattia, malato e caregiver possono ancora sentire di aver fatto qualcosa di buono e di bello.
Bibliografia
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