di
Francesca Batacchioli

Capire è perdonare, anche se stessi. (Alexander Chase)

A quante persone è successo di trovarsi a fare i conti con il rimorso, il rammarico, la rabbia, la vergogna di aver lasciato che qualcuno ci facesse sentire sbagliati o senza valore.

Mila ci racconta con queste parole la sua sofferenza:

“Non riesco a perdonarmi per aver lasciato che l’uomo con cui sono stata mi convincesse di essere una persona un pò stupida, inadeguata, fondamentalmente insignificante. Quando il suo comportamento mi metteva dei dubbi sulle intenzioni di lui e su ciò che mi diceva, quindi finivamo per litigare, riusciva sempre a convincermi che era dovuto a mie mancanze, alla mia incapacità di capire le situazioni e gestirle nel modo giusto “

Il problema di Mila non è tanto quello di perdonare l’uomo in questione che lei ha scoperto essere una persona non adatta a lei, ma quello di affrontare la responsabilità verso sé stessa di aver permesso di “non essersi sentita abbastanza”, di aver violato il proprio diritto a sentirsi una persona che ha valore, che è portatrice di qualità positive.

Che cos’è il perdono? Come poter perdonare sé stessi? Quali elementi ostacolano la possibilità di perdonarsi? Quali benefici produce la scelta di perdonare sé stessi per i propri errori? Perdonare sé stessi è diverso dal perdonare gli altri? Perdonarci ci renderebbe persone troppo indulgenti verso noi stessi? Rispondere a domande di questo tipo costituisce una sfida non semplice che la ricerca in ambito psicologico ha affrontato in modo scientifico, partendo dai costrutti implicati nel processo del perdono di sé.

Ancor prima di rientrare nel lessico religioso e in quello giuridico, la parola “perdono” (per-dono) si riallaccia al concetto di gratuità del dono (donare per grazia) ove il rapporto tra colpa e perdono viene svincolato dalla necessità di restituire, risarcire o espiare. Gilbert ci ricorda che nel dono della vita che un essere vivente fa ad un altro, ad esempio, è contemplata la colpa legata all’impossibilità di cancellare un debito così grande, ma non sussiste il presupposto un risarcimento del debito stesso di essere stati generati per perdonarci di questo (Gilbert, 2003).

Per aprirsi al perdono l’essere umano deve quindi considerare di poter essere ingiusto e che assumersi una colpa non equivale ad essere totalmente ingiusto e privo di ogni dignità.

Pur non essendoci un sufficiente accordo in letteratura sulla definizione del costrutto del “perdono di sé”, gli autori sembrano concordare sul fatto che possa essere considerato come uno spostamento da una considerazione di sé come totalmente indegno o ingiusto, cioè responsabile in assoluto, ad una visione di sé come essere umano fallibile, ma al contempo portatore di dignità e valore personale. (Holmgren, 1998; Mc Cullough, Pargament, Thoresen, 2000; Hall, Finchaam 2005; Wohl, De Shea Wahkinney, 2008).

Il ripristino di una concezione di sé come meritevole di rispetto e dignità a prescindere da ciò che si è compiuto richiede un processo di accettazione di sé, compresi i propri limiti ed i propri errori, muovendosi dalla posizione del risentimento e della colpa, verso l’assunzione di responsabilità, la possibilità di cambiamento, la riconciliazione.

 

Il perdono non è cancellare, giustificare, scusare, dimenticare un torto commesso.

Per accedere al perdono di sé è necessario rimuovere alcuni principali ostacoli:

– L’idea che debba essere annullata la colpa nei sui effetti: ciò che si è fatto resta tale.

– La convinzione che si possa concedere un condono: negare, nascondere, ritenere i nostri errori come privi di conseguenze non è perdonare.

– L’identificazione di sé con gli errori commessi: identificare sé stessi con ciò che di negativo abbiamo fatto, impedisce di sentirsi ancora detentori di qualità positive e capaci di agire in modo riparativo nei confronti degli errori commessi.

– L’idea di dover essere assolutamente giusto: non lasciarsi la possibilità di non comportarsi da colpevole, anche se ci si è comportati in modo ingiusto con noi stessi.

 

Perdono interpersonale perdono di sé: similitudini e differenze:

Il perdono dì sé, come il perdono interpersonale, è una scelta.

Perdonane gli altri, come perdonare sé stessi, comporta l’accettazione del torto subito: accettare un torto richiede sia accettare la mancata soddisfazione, la compromissione, o la frustrazione di uno scopo importante per noi stessi, che accettare la sofferenza che ne deriva (Miceli , Castelfranchi, 1997)

– A differenza di quanto plausibilmente può avvenire nel perdono interpersonale, il perdono di sé non ammette di evitare di confrontarsi con pensieri ed emozioni che riguardano l’errore commesso, con gli aspetti discrepanti con il sé desiderabile.

– Per perdonare sé stessi non è sufficiente perdonare i propri sbagli, ma è necessario pervenire ad una riconciliazione con l’immagine negativa di sé che deriva dall’essere responsabili di tali errori. E’ importante sottolineare che il perdono di sé necessita di una riconciliazione: il processo del perdono interpersonale è un processo che può essere distinto da quello della riconciliazione, in quanto non è necessario, a volte persino inopportuno in caso di gravi atti ingiusti o violenze, che la vittima di un danno pervenga ad una riconciliazione con il suo offensore (Finchem, 2000).  Il perdono di sé richiede inevitabilmente una riconciliazione con sé stessi poiché la vittima e l’autore del torto coincidono.

 

Perdono di sé e psicoterapia

 

A cominciare dagli anni ’80 si è intensificato l’interesse clinico sul tema del perdono soprattutto riguardo al rapporto tra perdono e salute mentale.

Anche se i dati clinici disponibili non sono per adesso da ritenersi esaustivi, sono disponibili alcuni studi che dimostrano che i soggetti con basso livello di perdono di sé, adottano più frequentemente uno stile di pensiero intrapunitivo e rivelano una maggiore tendenza a manifestare problemi di ansia, depressione, rabbia, sfiducia verso sé stessi e bassa autostima; il perdono di sembra correlare positivamente con un maggiore stato di benessere generale, non solo in termini di incremento dell’autostima, ma anche rispetto ad una maggiore frequenza di emozioni positive, un minore senso di vergogna e minori livelli di ansia e depressione. (Maltby, Macaskill, Day, 2001; Ross, Kendal, Matters, 2004; Ross, Hertenstein, Wrobel, 2007).

Affrontare il processo del perdono di sé in psicoterapia, comporta di considerare i rischi di approdare troppo facilmente al perdono di sé (come modalità di difesa dalle responsabilità), o di considerare la necessità di perdonare sé stessi come un’imposizione, o ancor peggio di finire per creare due sezioni scisse del sé, una parte buona che dona il perdono ed una parte cattiva che lo riceve.

Queste sono alcune delle ragioni per le quali in psicoterapia è più indicato lavorare sul concetto di perdono come accettazione di sé. Come abbiamo accennato, il processo di accettazione svolge un ruolo cruciale nel processo che porta al perdono di sé.

L’accettazione, dal punto di vista cognitivo, è la modificazione delle credenze che sostengono l’investimento in uno scopo nel momento in cui esso viene compromesso o rischia di essere compromesso (Perdighe, Mancini, 2010). L’accettazione non riguarda esclusivamente le perdite (come lutti, compromissioni fisiche), ma anche il mancato ottenimento o presunto non ottenimento di condizioni sentite come desiderate.

In quest’ottica, l’obiettivo del perdono di sé può diventare quello di mettere in discussione quelle credenze disfunzionali che hanno a che fare con la responsabilità di aver compromesso un nostro ideale o scopo, che rendono la persona incapace di accedere ad una visione maggiormente positiva di sé.

Bisogna dire che alcuni individui, fortemente autocritici, tendenti all’autoaccusa, con sentimenti intensi di vergogna rispetto agli errori commessi, traggono limitati benefici dagli interventi di modificazione delle credenze disfunzionali (Gilbert, 2009), poiché non sentono molto veritiere tutte quelle spiegazioni alternative che riescono a scoprire (in particolare quelle che provano di non essere totalmente ingiusto e comunque meritevoli di dignità e rispetto) e conservano il bisogno di rassicurarsi. Nel trattamento psicoterapico di questo tipo di soggetti, sembra utile ricorrere ad approcci psicoterapeutici appartenenti alla terza generazione della terapia cognitivo-comportamentale, come la Terapia Fondata sulla Compassione (TFC) che promuovono l’accettazione come processo fondamentale per il cambiamento (Gilbert, 2010).

La CFT ha si pone l’obiettivo primario di ridurre l’attitudine all’autocritica, attraverso l’adozione di un atteggiamento “compassionevole” verso sé stessi, le proprie emozioni, i propri pensieri e le proprie azioni negative.

Quando riusciamo a perdonarci, è perché abbiamo dismesso lo scopo di criticarci e punirci, attivando invece scopi più benevoli e compassionevoli (Enright, 1996)

 

“Compassione e perdono, queste sono le sole risorse necessarie

per vivere una vita all’insegna della pace e del successo.”

 

Dalai Lama

 

Bibliografia: