di
Cecilia Lombardo

In terapia cognitivo comportamentale per “esposizione” si intende la scelta di affrontare una situazione temuta, ma prima evitata, perché fonte di ansia e disagio. Per esempio, chi soffre di agorafobia evita luoghi affollati e da cui sarebbe difficile allontanarsi in caso di pericolo, come concerti, cinema, ristoranti. Chi ha un disturbo ossessivo-compulsivo teme che una sua azione o omissione comporti un grave danno, (come avere dimenticato aperto il rubinetto del gas), per tranquillizzarsi ricorre a un controllo ritualistico, e non permetterà a nessuno di alterare la sequenza della compulsione che tiene a bada l’ansia. Chi soffre di fobia sociale prova timore estremo del giudizio degli altri, evita allora di mettersi in situazioni potenzialmente imbarazzanti, limiterà gli scambi con le persone, è probabile che si auto-censuri perché timoroso di essere ritenuto poco intelligente o poco simpatico.

Ovvio, ma doveroso ricordare che alla base dell’ “evitamento” c’è la funzione dell’emozione di paura: stare lontani da ciò che può rivelarsi avversivo: un meccanismo evolutivamente selezionato nei millenni, a partire dalle specie animali più primitive, per massimizzare le possibilità di sopravvivenza. Si tratta quindi di un “salvavita”, che, però, a causa di apprendimenti avvenuti nel passato, in cui ci si è percepiti in grave pericolo e con poco potere di fare fronte alla difficoltà, può essere utilizzato a sproposito o in modo massivo, come se si rivivesse quella particolare situazione.

I comportamenti di evitamento possono riguardare non solo l’ambito dei disturbi in cui l’evitamento è un criterio diagnostico (fobie, disturbo ossessivo compulsivo, ansia di separazione, ecc…), ma si manifesta anche in situazioni in cui non c’è una franca psicopatologia, o in cui non sussiste un rischio immediato. Ad esempio si può avere paura delle relazioni intime dopo una grande delusione amorosa, si può avere paura di avere successo nel lavoro o negli affetti quando non ci si ritiene abbastanza degni o meritevoli. L’emozione di paura, ben identificabile nell’espressione del viso e nell’attivazione fisiologica quando il pericolo è imminente, in queste situazioni non è ravvisabile ad un livello superficiale, può manifestarsi in forma di cinismo o rassegnazione.

Quando l’evitamento, da comportamento adattivo, selezionato per non incorrere in un pericolo, diventa motivo di sofferenza? Quando si riduce l’orizzonte esistenziale della persona, quando cioè non si colgono le occasioni per stare bene e avere una vita soddisfacente; quando la paura di un determinato scenario è tirannica e impedisce alla persona di sviluppare le proprie capacità, di diventare flessibile nelle difficoltà, di auto- determinarsi.

Muoversi all’interno delle stesse dinamiche di interazione, adottare certe precauzioni, evitare di trovarsi in alcune situazioni permette di rimanere nella propria “comfort zone”, fa sentire protetti. E può succedere che, pur riconoscendo gli svantaggi di certe abitudini, queste siano molto difficili da abbandonare.

L’esposizione alle situazioni temute è una delle vie principali attraverso cui avviene e si manifesta il cambiamento, e va preparata con attenzione, valutando se e come procedere per gradi, a seconda della situazione e della capacità della persona in quel preciso momento. Le cautele sono doverose per impedire che il soggetto si senta sopraffatto dalle emozioni sgradevoli e rimanga eccessivamente turbato dall’esperienza, ciò porterebbe a perdere fiducia in sé stessi e nella bontà della tecnica, corroborando l’idea di non essere all’altezza.

L’esposizione, in terapia cognitivo comportamentale, di solito segue una fase di valutazione e una fase di intervento più prettamente cognitivo, in cui si modificano i processi disfunzionali di pensiero, in cui cambia il dialogo interno, vengono inoltre forniti strumenti per gestire le emozioni disturbanti.

In questo percorso si crea spazio a condotte diverse, fino a quel momento lontane dalle abitudini della persona, il cambiamento diventa pensabile, progettabile. Rompere con i cliché consolidati comporta una sfida: l’accettazione del rischio, che è un punto cardine della terapia. L’esposizione porta a concedersi il lusso di essere diversi da quello che suggeriscono le proprie paure, porta a dare fiducia alla propria capacità di fronteggiamento dei problemi, degli imprevisti, delle difficoltà. È un’apertura alla vita e alla consapevolezza che, in realtà, abbiamo ben poco controllo degli eventi. Porta a sentirsi più forti e fiduciosi nelle proprie potenzialità, facendo esperienza che si può andare oltre i propri limiti e ampliare la libertà di azione. Le paure circoscrivono il raggio di questa libertà, mentre, attraverso l’esposizione, i confini si allargano.

L’esposizione solitamente è graduale, e quindi segue una serie di passi concordati, ognuno di essi caratterizzati da un diverso grado di ansia. Il paziente compone una lista di situazioni temute e attribuisce un punteggio a ciascuna, in base alla quantità di disagio che comporta. Convenzionalmente la scala è decimale, il punteggio 1 rappresenta un’ansia appena accennata, e 10 il livello più alto di ansia/ disagio percepibile. Il criterio è assolutamente soggettivo, in base all’intensità dell’emozione del soggetto, a suo insindacabile giudizio, i numeri assegnati vengono infatti definiti “Subjective Unite of Disease” (SUD).

L’esposizione può essere fatta alla presenza del terapeuta o autonomamente dal paziente come un “compito a casa”. Occorre definire i dettagli per prevedere tutte le possibili fonti di intensificazione dell’emozione e quindi immaginare possibili soluzioni.

L’esposizione può essere effettuata in vivo, oppure in immaginazione, le due tecniche possono anche integrarsi. La prescrizione è quella di immergersi nella situazione temuta, tollerando i pensieri e le emozioni disturbanti. La capacità di tollerare si espande progressivamente nel tempo e, anche grazie al processo di abituazione, il corpo e la mente si adattano gradualmente alla novità e il disagio piano piano si abbassa. Si tratta di un esercizio che non va fatto una volta per tutte, occorre allenarsi. Durante l’ora di terapia si riflette su quanto accaduto e si programma il passo successivo.

L’esposizione immediata a livelli di ansia elevati, senza procedere per gradi, viene definita “flooding”, ovvero immersione, può essere una scelta strategica, ma volte è un’opportunità che le circostanze di vita impongono, senza il permesso del paziente o la concertazione con il terapeuta. Anche in questo caso durante il colloquio è interessante capitalizzare quanto è stato appreso e comprendere quale nuova immagine di sé e del mondo è emersa.

Quando si decide di affrontare i propri “mostri” è come se ci si dicesse: “Non mi faccio dominare dal passato, dalle mie esperienze pregresse, da quello che ho imparato in famiglia o in altri contesti. Scelgo di costruire un presente e un futuro migliore”. In sostanza è un lodevole atto di coraggio, tutto a proprio vantaggio.

 

BIBLIOGRAFIA

Andrews G. (2003) Trattamento dei disturbi d’ansia. Guide per il clinico e manuali per chi soffre del disturbo. Centro Scientifico Editore.

Baldini F. (2004) Homework: un’antologia di prescrizioni terapeutiche. Edizioni Mc Grow Hill Education.

Perdighe C. e Mancini F. (a cura di) (2016) Elementi di Psicoterapia Cognitiva. Giovanni Fioriti Editore.

Wells A. (1999) Trattamento cognitivo dei disturbi d’ansia. Edizioni Mc Grow Hill Education.

 

Metafora: “I demoni sulla barca” https://youtu.be/Ow1YzC-CKSA