di
Debora Pratesi

La difficoltà a prendere sonno o svegliarsi nel cuore della notte senza apparente ragione o ancora avere risvegli prematuri al mattino sono forme in cui l’insonnia può manifestarsi.

L’insonnia viene definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come un disturbo dell’inizio e del mantenimento del sonno, oppure come un sonno non ristoratore presente per almeno tre notti alla settimana, associati ad una sensazione di fatica, stanchezza o inefficienza diurna.

Diversi aspetti sono implicati nel sonno; l’aspetto fisiologico che riguarda la polarità tensione-distensione, mentre l’aspetto psicologico riguarda invece il funzionamento cognitivo del soggetto e le sue convinzioni.

Si parla appunto di insonnia psicofisiologica quando essa è dovuta ad una “tensione somatizzata” e ad un “comportamento appreso” che ostacolerebbe il sonno: in questo caso tutta l’attenzione sarebbe centrata sulla propria incapacità a dormire.

Con “tensione somatizzata” ci si riferisce ad uno stato di tensione ed iperattività dello stato di vigilanza (arousal) che si manifestano nella fase di addormentamento, sia esperiti soggettivamente che rilevati attraverso misurazioni obiettive. Tale stato sarebbe caratterizzato da un’attivazione del sistema nervoso periferico, con un aumento della tensione muscolare, della frequenza cardiaca, della sudorazione ed altri sintomi di attivazione.

Con “comportamenti appresi che impediscono il sonno” ci si riferisce a pattern di aumentata vigilanza nella fase di addormentamento, innescati, mediante condizionamento classico, dall’ambiente della camera da letto, dove idee, pensieri ossessivi o ruminazioni che invadono i momenti precedenti il sonno sono spesso interpretati come un indice di ipervigilanza.

Spesso si impara a convivere con le conseguenze dell’ insonnia applicando alcune “strategie di compensazione”, comportamenti che al momento possono sembrare benefici ma che a lungo termine favoriscono il mantenimento del disturbo. Ognuno di questi comportamenti rappresenta lo sforzo da parte degli insonni di incrementare le possibilità di dormire ma esso sembra che funzioni da mantenimento del disturbo.

La cosiddetta “sleep effort syndrome” (la sindrome da sforzo di addormentamento) è causata dalla preoccupazione per il sonno, cui seguono tutti i comportamenti disfunzionali con cui si cerca di controllare il sonno stesso, come cercare di dormire ad ogni costo. Il sonno è un processo fisiologico involontario, per cui tutti i tentativi di tenerlo sotto controllo non fanno che peggiorare i quadri d’ insonnia, determinando una disregolazione dell’omeostasi del sonno. Ciò favorisce un peggioramento della continuità del sonno determinando un allungamento della latenza di Sonno (tempo di addormentamento) e un incremento del tempo di veglia infrasonno.

Inoltre possiamo orientarci attraverso classificazioni descrittive, dove un’”insonnia iniziale” si riferisce ad una difficoltà ad addormentarsi; la presenza di risvegli frequenti o prolungati viene indicata come “insonnia centrale” o da “mantenimento del sonno”; per “insonnia terminale” si intende invece la presenza di risvegli mattutini precoci.

Un sonno “non ristoratore” indica un sonno non riposante che fa sì che ci si senta stanchi e assonnati durante il giorno.

L’insonnia varia per durata, gravità e frequenza. Se la presenza di insonnia è inferiore ad un mese è generalmente definita acuta, transitoria, ed è spesso associata a fattori precipitanti definiti, come eventi stressanti, patologie acute o uso di sostanze ecc..

L’insonnia si caratterizza invece come cronica quanto i sintomi persistono per almeno un mese, e più tipicamente per un periodo di sei mesi o più, di solito quando non si riesce più a legare l’insonnia a fattori scatenanti.

Per gravità ci si riferisce al tempo: quanto la durata del sonno è alterata in base alle esigenze e caratteristiche individuali e quanto ciò produce un disagio significativo.

Risulta quindi importante definire l’insonnia anche in termini soggettivi oltre che oggettivi.

La terapia cognitivo comportamentale mira a favorire un aumento del tempo totale di sonno o a ridurre la latenza del tempo di addormentamento, inoltre permette di modificare le credenze errate sul sonno e i comportamenti disfunzionali associati che fungono da fattore di mantenimento del disturbo stesso.

Spesso l’interpretazione di una data situazione, ad esempio la sonnolenza, può elicitare risposte emotive negative come paura o ansia che interferiscono con il sonno; ad esempio quando non si riesce a dormire e a temere le conseguenze diurne della mancanza di sonno si può creare un circolo vizioso che alimenta l’insonnia stessa.

Gli interventi non farmacologici del Trattamento Cognitivo-Comportamentale comprendono tecniche specifiche che hanno mostrato un’efficacia significativa per il trattamento dell’insonnia, oltre ad altre tecniche Cognitive e di Rilassamento utilizzate in integrazione.

 

Per approfondimenti:

 

  • World Health Organization (1992). The ICD-10 Classification of Mental and Behavioural Disorders: Clinical descriptions and diagnostic guidelines. Geneva: World Health Organization.

M. L. Perlis, C. R. Jungquist, M. T. Smith, D. Posner (2005). The Cognitive Behaviorale Treatment of Insomnia: A Treatment Manual. Springer V