Negli ultimi anni le notizie riguardanti l’abbattimento di calamità naturali sul nostro pianeta sono diventate sempre di più, continue, pressanti, spesso allarmanti. Quando sentiamo che c’è stata un’alluvione in qualche paese, che uno Tzunami ha inondato un villaggio o che un terremoto ha raso al suolo un’intera città, il nostro pensiero va subito alle vittime, a ciò che di terribile gli è capitato e che ancora dovranno affrontare.

Poi c’è l’altro lato della medaglia, il lato di chi va a soccorrere, di chi, per passione o professione, lascia ciò che stava facendo e parte; perché si, qui siamo in emergenza, qui non si pianifica, si molla tutto e si parte.

E allora, di cosa abbiamo bisogno per lasciare tutto e partire? Cosa dobbiamo conoscere?

Con la legge 225/1992 il Servizio nazionale della protezione civile (PC) ha delineato gli eventi naturali in:

  • eventi di tipo A: quegli eventi naturali o connessi all’attività dell’uomo che possono essere fronteggiati mediante interventi attuabili dai singoli enti e amministrazioni competenti in via ordinaria;
  • eventi di tipo B: eventi naturali o connessi all’attività dell’uomo che per loro natura ed estensione comportano l’intervento coordinato di più enti o amministrazioni competenti in via ordinaria;
  • eventi di tipo C: calamità naturali, catastrofi o altri eventi che per intensità ed estensioni debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari.

Nell’ambito delle attività previste per la gestione di questi eventi, risultano di fondamentale importanza quelle “volte alla previsione e alla prevenzione dei rischi, al soccorso delle popolazioni sinistrate e ad ogni altra attività necessaria e indifferibile, diretta al contrasto e al superamento dell’emergenza e alla mitigazione del rischio.”

Fra le attività di prevenzione (art. 3) viene indicato che “la prevenzione dei diversi tipi di rischio si esplica in attività non strutturali concernenti l’allertamento, la pianificazione dell’emergenza, la formazione, la diffusione della conoscenza della protezione civile nonché l’informazione alla popolazione e l’applicazione della normativa tecnica, ove necessarie, e l’attività di esercitazione.”

Declinando in modo più accurato l’ambito della formazione, troviamo innanzitutto l’acquisizione di specifiche tecniche di soccorso e di conoscenze rispetto alla tipologia di calamità naturale. I nostri soccorritori fanno corsi di ogni genere, proprio per arrivare a quel momento il più preparati possibile perché, quando ci sono vite umane in gioco, le responsabilità aumentano.

Ma tutto ciò basta per prepararli a ciò che si troveranno davanti?

La risposta è no, non basta la formazione tecnica, sia essa specialistica e raffinata.

Molti studi hanno ampiamente dimostrato come sia di fondamentale importanza la formazione quella NON TECNICA, riguardante l’acquisizione di strumenti indispensabili per fronteggiare le numerose criticità che si creano in situazioni concitate, ad alta intensità emotiva, dove la capacità di ragionare e pianificare è ridotta da fattori sia esterni, come l’evento naturale, sia interni, ovvero le nostre reazioni psico-fisio-comportamentali.

Tali competenze risultano ancora più importanti alla luce del grande numero di errori che spesso sono commessi durante le operazioni di soccorso, non dovuti alla mancanza di competenza “stricto sensu”,  ma alle criticità del lavoro in team, o fra team con professionalità differenti, e alle carenze comunicative fra i membri.

Dalla natura degli errori commessi e delle difficoltà incontrate si può quindi dedurre la tipologia di abilità che di cui i soccorritori necessitano: le competenze non tecniche.

Queste competenze, dette Soft Skills o Not Technical Skills, sono definite in letteratura come abilità cognitive, comportamentali e interpersonali, complementari alle competenze tecnico-professionali, importanti ai fini della riuscita delle pratiche operative nel massimo della sicurezza.

Tra le “skills” più studiate si annoverano leadership, decision making e situation awareness.

Endsley (2000) definisce la situation awareness come la conoscenza e il monitoraggio consapevole di cosa ci sta accadendo intorno.

Questa caratteristica, fondamentale per garantire un certo livello di sicurezza in ambienti complessi e dinamici (Mearns, Plin, O’Connor, 2001), si declnica in tre livelli:

  1. percezione dello stato, degli attributi e delle dinamiche degli elementi rilevanti nell’ambiente;
  2. interpretazione del significato di questi elementi;
  3. evolversi degli elementi rilevanti nel futuro.

I processi decisionali sono quelle attività mentali attraverso le quali si sceglie una strategia ritenuta adatta e funzionale in quel momento e s’implementa fino ad arrivare alla sua conclusione.

Solitamente le fasi riguardano la valutazione della situazione, l’identificazione delle opzioni, l’analisi dei costi e benefici e la selezione dell’opzione con i maggiori benefici e i minori costi (Strauch, 2002).

Questa abilità si collega direttamente con la situation awareness che, se ben sviluppata, aumenta la capacità di selezionare la strategia più adeguata per quella specifica situazione.

Nelle organizzazioni moderne spesso le decisioni riguardano molteplici individui e di fatto si parla di “social decision making”; questo tipo di trasmissione dell’informazione è spesso molto delicata e si presta a molti fenomeni distorsivi, come la polarizzazione del pensiero, a volte verso scelte più rischiose e non necessariamente con risultati migliori. Pertanto, migliorare le capacità di analisi e condivisione dei modelli faciliterà l’adozione di strategie utili e funzionali.

Un’altra abilità ampiamente studiata è la leadership che, secondo Bryman’s (1996), si configura come un processo d’influenza sociale in cui una persona guida gli altri membri del gruppo verso un obiettivo.

Tra le tipologie maggiormente riconosciute dalla letteratura si ritrova il leader transazionale, che stabilisce gli obiettivi, monitora il loro raggiungimento, ottiene acquiescenza dal gruppo e stabilisce le modalità di rinforzo e punizione; il leader trasformazionale, con elevate doti carismatiche, che basa la sua influenza sull’ispirazione, la promozione della partecipazione e il supporto ai membri del gruppo. Per ultimo troviamo il leader laissez-faire, che semplicemente rinuncia operativamente al suo ruolo, mantenendo soltanto una posizione di facciata.

Alcuni studi (Plin e Yule, 2004) sembrerebbero dimostrare come gruppi con un leader trasformazionale presentassero livelli di sicurezza più alti, dovuti, fra le altre cose, alla promozione di obiettivi comuni all’intera organizzazione.

Le competenze non tecniche fin qui illustrate rischiano di collocarsi su un piano molto astratto, difficilmente comprensibile e soprattutto difficilmente praticabile. Per questo, si è resa necessaria 1’identificazione di indicatori comportamentali di competenze non tecniche (behavioral markers) allo scopo di stabilire gli obiettivi di un training e i criteri di valutazione di tale attività.

Le competenze non tecniche, così come quelle tecniche possono variare a seconda della professione e del contesto in cui devono essere utilizzate, anche se i domini principali possono essere generalizzati e utilizzati per migliorare l’interdipendenza delle squadre impegnate nelle operazioni di soccorso (leadership, decision making e situation awareness e) sono generalizzabili (Flin, O’Connor e Mearns, 2002).

 

 

Bibliografia

 

Avermaete, J.A. G. (1998), NOTECHS: Non-technical skill evaluation in JAR-FCL. NLR technical report, NLR-TP-98518.

Bass B. e Avolio B. (a cura di) (1994), Improving organizational ef- fectiveness through transformational leadership. New York, Sage. Bogner M. (a cura di) (2004), Misadventures in Health Care, LEA,