di
Francesca Solito

Con il termine autolesionismo si fa riferimento a tutte quelle condotte deliberatamente orientate al provocarsi dolore fisico.

Quando parliamo di comportamenti di autolesionismo ci riferiamo a ciò che in letteratura viene definito con il termine di autolesività non suicidaria (non-suicidal self-injury) e sta a indicare un comportamento socialmente non accettato che implica l’alterazione deliberata e auto-inflitta della propria superficie corporea, senza alcun intento suicidario (ad esempio tagliarsi, bruciarsi, incidersi, graffiarsi la pelle).

Ne soffrono soprattutto adolescenti e giovani adulti, con un’incidenza del 15-20% (Ross et al., 2002), mentre tra gli adulti la percentuale si attesta al 6% (Briere & Gil, 1998; Klonsky, 2011). Sia in adolescenza sia in età adulta l’incidenza dell’autolesionismo è più elevata tra i soggetti che presentano disturbi dell’umore e/o disturbi d’ansia e nelle persone caratterizzate da alti livelli di disregolazione emotiva (Klonsky, 2003; Andover et al., 2005).

L’autolesionismo è incluso fra i sintomi del disturbo borderline di personalità: “ricorrenti comportamenti, gesti o minacce suicidari, o comportamento automutilante”. Tuttavia, queste modalità comportamentali non sono esclusive del disturbo borderline, ma si possono riscontrare anche in altre categorie diagnostiche, tra cui i disturbi d’ansia, la depressione, l’abuso di sostanze, i disturbi alimentari, la schizofrenia, disturbo da stress post-traumatico e altri disturbi di personalità.

Studi recenti hanno indagato il rapporto fra l’autolesionismo intenzionale e i gesti parasuicidari e suicidari. I gesti autolesionistici non suicidari ed i gesti parasuicidari sembrerebbero differire per alcuni punti importanti: il ricorso a metodi differenti, gli esiti fisici di diversa gravità (maggiore per i gesti parasuicidari e suicidari) e la diversa intenzionalità, l’autolesionismo non suicidario è frequentemente messo in atto in assenza di ideazione suicidaria.

In questa direzione si è mosso il DSM-5 (APA; 2013), che considera l’autolesività non suicidaria una categoria diagnostica a sé stante inserita nella categoria “condizioni che necessitano di ulteriori studi”.

I criteri per la diagnosi di autolesionismo proposti nel manuale sono i seguenti:

Criterio A. Nell’ultimo anno, in cinque o più giorni, l’individuo si è intenzionalmente inflitto danni di qualche tipo alla superficie corporea in grado di indurre sanguinamento, lividi o dolore (per es. tagliandosi, bruciandosi, accoltellandosi, colpendosi, strofinandosi eccessivamente), con l’aspettativa che la ferita porti a danni fisici soltanto lievi o moderati (non c’è intenzionalità suicidaria).

Criterio B. L’individuo è coinvolto in condotte autolesive con una o più delle seguenti aspettative:

  1. Ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi.
  2. Risolvere una difficoltà interpersonale.
  3. Indurre una sensazione positiva.

Criterio C. L’autolesività intenzionale è associata ad almeno uno dei seguenti sintomi:

1. Difficoltà interpersonali o sensazioni o pensieri negativi, come depressione, ansia, tensione, rabbia, disagio generalizzato, autocritica, che si verificano nel periodo immediatamente precedente al gesto autolesivo.

2. Prima di compiere il gesto autolesivo, presenza di un periodo di preoccupazione difficilmente controllabile riguardo al gesto che l’individuo ha intenzione di commettere.

3. Pensieri di autolesività presenti frequentemente, anche quando il comportamento non viene messo in atto.

Il termine autolesionismo è un’etichetta diagnostica che racchiude comportamenti e vissuti anche piuttosto diversi tra loro. Sembra costituire una strategia di coping e regolazione emotiva: di fronte allo stato emotivo indesiderato e vissuto come intollerabile, il soggetto si ferisce cercando di ripristinare uno stato tollerabile (Chapman et al., 2006; Kamphius et al., 2007). Si potrebbe dire che la messa in atto di comportamenti autolesivi sia un tramutare in sofferenza fisica, più reale e più facilmente gestibile, una sofferenza emotiva percepita come “troppo intensa”, incontrollabile: per un po’ la persona si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente da quello interiore. In questo senso l’autolesionismo sembra assumere la valenza di una strategia disadattiva di coping (nozione proposta da Favazza, 1998). Con il passare del tempo rischia di attivare nuovi vissuti emotivi spiacevoli, quali la colpa per aver messo in atto il comportamento e la vergogna. I pazienti riferiscono emozioni di calma e di benessere dopo essersi tagliati e questo aumenta la possibilità di ricorrere a questa modalità di gestione della sofferenza favorendo l’instaurarsi di circoli viziosi che mantengono il problema nel tempo.

La seconda funzione dell’autolesionismo è quella che vede attuare tali condotte al fine di auto-punirsi o come forma di rabbia autodiretta (Nock et al., 2008; Hooley & St Germain, 2013), spesso vengono riferiti pensieri critici e molto svalutanti verso se stessi, la persona sente l’impulso a farsi del male, a infliggersi una pena. Una terza funzione, anche se meno frequente, è quella del mostrare agli altri, attraverso delle evidenze fisiche, la propria sofferenza interiore (Klonsky, 2007). Un gesto estremo utilizzato al fine di urlare al mondo la propria esistenza/presenza e la sofferenza che non si è in grado di comunicare a parole.

Bibliografia

American Psychiatric Association (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione. DSM-5. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Chapman A.L., Gratz K.L., Brown M.Z. (2006). Solving the puzzle of deliberate self-harm: the experiential avoidance model. Behav Res. Ther., 44(3), 371–394.

Favazza, A.R. (1998). The coming of age of self mutilation. Journal of Nervous and Mental Disease, 186(5), 259-268.

 

Hooley J.M., St Germain S.A. (2013). Nonsuicidal self-injury, pain, and selfcriticism: does changing self-worth change pain endurance in people who engage in self-injury? Clin. Psychol. Sci., 2(3), 297–305.

 

Kamphuis JH, Ruyling SB, Reijntjes AH. (2007).Testing the emotion regulation hypothesis among self-injuring females: evidence for differences across mood states. Journal of Nervous and Mental Disease, 195(11), 912-8.

 

Klonsky E.D. (2007). The functions of deliberate self-injury: a review of the evidence. Clin. Psychol. Rev., 27(2), 226–239.

 

Nock M.K., Wedig M.M., Holmberg E.B., (2008). The Emotion Reactivity Scale: development, evaluation, and relation to self-injurious thoughts and behaviors. Behav Ther., 39(2), 107–116.