di
Silvia Timitilli

Prendendo ispirazione dal pensiero kantiano, potremmo immaginare la mente umana come una lente attraverso cui osserviamo il mondo. Se le nostri lenti sono blu, vedremo la realtà intorno a noi tutta di questo colore, allo stesso modo, se le nostri lenti fossero verdi, rosse o gialle, la nostra visione della realtà si modificherebbe di conseguenza.

Esistono dunque tante realtà differenti quante sono le lenti attraverso cui osserviamo il mondo. Cosa accadrebbe se queste lenti presentassero delle lievi imperfezioni? La nostra lettura della realtà subirebbe necessariamente una distorsione.

La presenza di queste imperfezioni cosa ci dice allora della nostra lente? Si tratta di una lente difettata e da sostituire oppure sono piccoli “difetti di fabbrica” assolutamente tollerabili? La psicologia e, in particolare, la psicologia cognitiva hanno cercato di rispondere a questi ed altri interrogativi giungendo a individuare le principali distorsioni della nostra mente, scoprendo che queste non sono poi così rare ma, anzi, costituiscono la normalità nel nostro funzionamento mentale.

 

Iniziamo dando un nome a tali incrinature: si tratta delle cosiddette distorsioni cognitive o bias cognitivi.

 

Come si creano queste distorsioni?

 

Queste incrinature nascono all’interno del processo decisionale. Immaginiamo, nella situazione più semplice, di dover risolvere un problema potendo scegliere tra solo due soluzioni A e B. Quale ragionamento seguiremo per decidere quale opzione seguire? Potremo prenderci del tempo e analizzare tutte le caratteristiche dell’opzione A e tutte le sue possibili implicazioni e fare poi altrettanto con l’opzione B; in seguito porremo le soluzioni A e B a confronto, faremo un bilancio costi/benefici dell’una e dell’altra e infine opteremo per quella che risulta più vantaggiosa per la risoluzione del nostro problema. Tale tipo di ragionamento, che prende il nome di algoritmo, segue i principi della logica formale e del calcolo probabilistico e conduce la persona a individuare la soluzione razionalmente corretta per il suo problema.

Come è facile intuire, questo tipo di ragionamento, pur quanto ineccepibile dal punto di vista logico, risulta molto dispendioso in termini di tempo e risorse cognitive. La nostra mente ha così sviluppato delle scorciatoie di pensiero, le cosiddette euristiche, che consentono di giungere più velocemente alla decisione, aumentando però al tempo stesso il rischio di commettere degli errori logici.

Immaginiamo, ad esempio, di trovarci in un negozio di abbigliamento ed essere indecisi tra due golf di lana. Se, per scegliere il golf con la lana migliore, seguissimo il ragionamento basato sugli algoritmi, dovremmo impiegare ore per effettuare la nostra scelta poiché dovremmo considerare sistematicamente tutte le alternative ed effettuare una ricerca esaustiva di tutte le informazioni dirimenti (es. il tipo di lana, la sua provenienza, il tipo di lavorazione, confrontare i tipi di lana dei diversi golf, ecc.). Le euristiche giungeranno allora in nostro soccorso, facendoci uscire in tempi ragionevoli dal negozio e permettendoci di non arrivare in ritardo all’appuntamento fissato per cena: molto probabilmente opteremo per il golf di “marca” con un prezzo maggiore perché attribuiremo alla marca e al prezzo il sinonimo di qualità. Non è assolutamente detto che questa soluzione sia quella “corretta” da un punto di vista logico e contenutistico, ma sicuramente sarà quella più funzionale per farci comprare il golf e non arrivare in ritardo alla cena di lavoro con il nuovo capo e i nuovi colleghi a cui vorremmo fare una buona impressione.

È dalla applicazione delle euristiche che nascono dunque i bias o distorsioni cognitive che possono essere definiti come errori sistematici nei processi di valutazione e di giudizio, discostandosi dai principi della logica formale e del calcolo probabilistico.

La psicologia cognitiva ha messo in evidenza come questi errori logici siano all’ordine del giorno e, soprattutto, come la loro presenza nella mente di un individuo non discrimini un soggetto sano da un soggetto patologico, anzi è stato evidenziato come le euristiche interpretative possano rilevarsi essenziali per il mantenimento del benessere soggettivo.

Secondo la Teoria Pragmatica della Razionalità di Baron (2000), una conclusione inferenziale, sebbene si discosti dai principi formali, può a particolari condizioni risultare ugualmente ragionevole o funzionale. Ciò, infatti, che rende razionale o meno uno specifico ragionamento non è la sua aderenza alle regole formali del pensiero, ma la sua utilità pratica: se l’inferenza consente il raggiungimento degli scopi del soggetto, va considerata funzionale anche se si discosta dai principi della logica formale.

Baron individua quattro criteri che definiscono il buon pensiero:

  1. formulare più ipotesi alternative;
  2. cercare informazioni dirimenti oltre a quelle che confermano l’ipotesi;
  3. utilizzare in modo funzionale il tempo e le risorse per la fase 1 e 2 (né troppo, né troppo poco);
  4. avere una giusta fiducia nelle proprie conclusioni, mantenendo una giusta distanza critica.

 

Se i bias cognitivi sono normali come mai, allora, la psicoterapia cognitiva si è occupata di tali fenomeni? In altre parole, quando e a quali condizioni le distorsioni cognitive risultano patogene?

 

Partiamo dal considerare che non tutte le persone che pensano erroneamente hanno bisogno o desiderano correggere il proprio pensiero; è quando tali errori rendono la vita impossibile o portano all’infelicità che il soggetto si trova ad aver bisogno di qualche forma di aiuto.

L’assunto fondamentale della terapia cognitiva, formulato per la prima volta negli anni ‘60 da Beck ed Ellis, è che la sofferenza emotiva sia determinata dalla presenza, nella mente dell’individuo, di credenze, pensieri automatici e schemi disfunzionali. Tali elementi sono concettualizzabili come brevi affermazioni di contenuto negativo (es. “sono incapace”) estremamente resistenti alla possibilità di essere modificate dall’esperienza. La resistenza al cambiamento di questi schemi è determinata dalla presenza dei bias cognitivi che ne “prevengono” l’invalidazione e contribuiscono quindi al mantenimento della sofferenza soggettiva.

 

Ciò che rende un bias cognitivo capace di mantenere la sofferenza non è una caratteristica intrinseca al bias in questione, ma un ricorso sistematico al tipo di ragionamento che sottende al bias stesso. Secondo Baron, infatti, le euristiche sono patogene se il soggetto ricorre ad esse in modo frequente e sistematico indipendentemente dalle condizioni, ovvero anche quando gli sarebbe possibile e utile ricorrere ad un altro tipo di ragionamento come, appunto, l’algoritmo. In questi casi il ragionamento del soggetto è disfunzionale, ossia controproducente rispetto ai suoi scopi e conduce a conclusioni sistematicamente errate.

Nei casi patologici il soggetto:

  1. effettua un esame limitato dei fatti, con una ricerca incompleta di informazioni e dati trascurando ipotesi alternative, pur avendo tempo disponibile e rischiando di pagare costi limitati per tale ricerca di informazioni;
  2. non considera ipotesi alternative e ricerca solo evidenze compatibili con la sua ipotesi;
  3. ha un’eccessiva fiducia nella veridicità delle proprie conclusioni, anche se queste derivano da un esame limitato dei fatti e da una ricerca troppo frettolosa e sbrigativa;
  4. oppure pensa troppo a lungo prima di decidere, così da pagare costi spropositati rispetto alla posta in gioco.

Il mancato rispetto dei principi baroniani del ragionamento fa in modo che il soggetto permanga in atteggiamenti, condotte e stati d’animo nocivi. Tale persistenza è disadattiva, specie in quei casi in cui per la persona sarebbe possibile e utile cambiare atteggiamento.

Beck, nel suo lavoro con i pazienti depressi, iniziò ad osservare queste distorsioni cognitive riuscendo a dare loro un nome e delineandone le caratteristiche e il funzionamento.

Negli articoli successivi conosceremo più da vicino i principali bias, per meglio comprenderne il funzionamento e soprattutto capire cosa ci impedisca di liberarci di quei brutti pensieri che tanto ci fanno soffrire!

 

Per approfondimenti:

 

Beck, A.T. (1984). Principi di terapia cognitiva. Casa Editrice Astrolabio.

 

Kahneman D. (2017). Pensieri lenti e veloci. Mondadori.

 

Perdighe C. e Mancini F. (a cura di) (2010). Elementi di Psicoterapia Cognitiva. Giovanni Fioriti Editore.