Quando la sofferenza diventa patologica? In altre parole: quali sono i ‘segnali’ che potrebbero indicare l’utilità di rivolgersi ad un terapeuta?

Non tutta la sofferenza psichica è espressione di patologia. Spesso il nostro soffrire rappresenta una normale conseguenza di una rappresentazione di scopi personali non raggiunti o a rischio di compromissione, e l’intensità del dolore sarà un indice del valore degli scopi in questione.
Vedrò di spiegarmi meglio. Se per me è auspicabile avere una relazione affettiva stabile ma incontro sempre uomini sfuggenti e scarsamente disponibili, sicuramente soffrirò perché non vedo realizzarsi un progetto per me importante. Se desidero avere un posto di lavoro fisso ma il mio capo continua a propormi contratti di collaborazione, probabilmente mi troverò ad essere preoccupato e a rimuginare ansiosamente sulla mia condizione di precarietà. Se la mia grande passione è stata da sempre quella di viaggiare ma all’improvviso mi viene drasticamente ridotto lo stipendio, potrei sentirmi triste vedendosi allontanare la possibilità di divertirmi in Sardegna la prossima estate, come avevo da tempo programmato.
Ogni giorno la nostra esistenza è attraversata da piccole o grandi sofferenze. Ma questo non rimanda di per sé alla ‘patologia’. Anzi, le emozioni che più ci fanno tribolare rappresentano degli utilissimi segnali che stanno ad indicare lo stato dei nostri scopi. Quindi ci dicono se è necessario muoversi, arrestarci, cambiare strategia oppure rinunciare. Il dolore psichico, quindi, ci avverte che dobbiamo agire in due modi per ridurre la sofferenza: modificare e migliorare le strategie di perseguimento dello scopo, aumentandone l’efficacia, oppure rinunciare allo scopo diminuendo il suo valore e quindi l’importanza del suo raggiungimento.
Occorre anche qui servirci di un piccolo esempio per esemplificare. Immaginiamo una donna che è stata lasciata dal partner e che, soffrendo molto per questa ragione, si chiude in casa per giorni rifiutandosi di stare con gli altri, pensa che ormai la sua vita è finita e che nessuno potrà renderla felice come il perduto amato sapeva fare. La sua disperazione quotidiana le segnala che il suo scopo di essere amata da un uomo speciale è stato compromesso definitivamente e che quindi sarebbe inutile investire su altro. Che senso avrebbe uscire? Tanto vale rimanere da sola a piangere, e a leccarsi le ferite. Fintantoché il piacevole incontro con un altro uomo non le fa cambiare idea, inducendola a pensare che forse il suo scopo non è definitivamente e irrimediabilmente compromesso, come invece aveva creduto nei giorni del triste isolamento. La donna in questione ha quindi cambiato il mezzo per arrivare allo stesso fine.

Un sistema ben funzionante utilizza i segnali provenienti dalle emozioni negative per cambiare: la possibilità di cambiamento è il miglior indice di buona salute del sistema (Lorenzini e Sassaroli, 2000).

Anche la sofferenza patologica è costituita dagli stessi ingredienti e quindi dalle stesse emozioni (sgradevoli) e dai medesimi comportamenti che troviamo nel normale soffrire, sia per intensità sia per qualità. Ma l’aspetto che caratterizza i problemi cosiddetti psicologici è il fatto che la sofferenza è reiterata, cioè permane nonostante i tentativi che le persone fanno per smettere di stare male. Permane quindi in maniera paradossale: la persona mette in atto le competenze per risolvere il problema, si propone di cambiare, se lo impone e, non ultimo, sa pure che avrebbe dei significativi vantaggi nel farlo, ma nulla cambia.
Pensiamo ad un uomo che gioca d’azzardo di frequente e che, a causa di questa abitudine, sperpera i suoi averi mettendo in serio pericolo il patrimonio familiare. Un bel giorno, resosi conto che sarebbe bene smettere sia per il suo bene che per quello dei familiari, comincia a ripetersi che d’ora in poi non dovrà più cadere in tentazione, dovrà evitare i luoghi dove gioca e magari distrarsi con altre occupazioni. Ma, nonostante ce l’abbia messa tutta, dopo qualche giorno dall’aver giurato e spergiurato che non l’avrebbe più fatto e che l’errore non si sarebbe più ripetuto, si ritrova ancora una volta davanti alla slot machine, vedendo i suoi buoni propositi svanire nel nulla.

L’essenza della patologia sta tutta nell’impossibilità del sistema di cambiare (Lorenzini e Sassaroli, 2000).

Quando la persona arriva in terapia sta proprio qua: ha continui stati di disagio, di minaccia di scopi, di condizioni desiderabili che andrebbero salvaguardate, stabilizzate, tenute in pugno, che sono invece percepite come costantemente minacciate. Come si esce da una situazione in cui si percepiscono sistematicamente minacciate delle condizioni desiderabili? A quali condizioni una persona smette di tribolare? O la persona cambia strategia e trova un modo diverso per raggiungere lo scopo, oppure cambia l’investimento sullo scopo stesso. Chi arriva in terapia non fa né l’una né l’altra cosa.

In questo sta la differenza tra dolore normale e dolore patologico, che viene ben rappresentato dai racconti delle persone che scelgono di farsi aiutare in terapia. La differenza che può esistere tra due uomini ugualmente terrorizzati dalla paura di ammalarsi gravemente è che il primo sceglie di cambiare le proprie abitudini di vita smettendo di fumare, seguendo un’alimentazione più sana e iniziando a fare sport, mentre il secondo va dal medico ogni giorno, si sottopone ad analisi sempre più approfondite e passa la sua vita elemosinando rassicurazioni sulla propria salute a chi gli sta intorno, fino a rendere la propria esistenza, non volendo, una croce. Ciò che potrebbe differenziare due donne similmente tristi e disperate per la morte del proprio coniuge è che la prima, dopo qualche mese, rinuncerà allo scopo evidentemente irraggiungibile di riavere la persona amata scomparsa, continuando la propria vita, mentre la seconda continuerà ad apparecchiare la tavola per due persone anche a distanza di anni, come imprigionata in una bolla fuori dal tempo.
La questione sul perché non si riesca a cambiare idea e la riflessione sui meccanismi che impediscono la fuoriuscita dalla sofferenza sono struttura portante del lavoro terapeutico e, perché no, oggetto di un futuro approfondimento.

(Giulia Paradisi)

Per approfondimenti:
Lorenzini, R., Sassaroli, S. (2000). La mente prigioniera.
Perdighe, C., Mancini, F. (a cura di) (2008). Elementi di psicoterapia cognitiva.

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