di
Silvia Timitilli

“Che brutta cosa portare rancore”…chissà quante volte abbiamo sentito questa frase e non condividerla sembra davvero difficile. Parlandoci con tutta onestà, se dovessimo pensare di invitare qualcuno a fare un aperitivo o una passeggiata alla fine di una lunga giornata di lavoro, difficilmente inviteremmo quell’amico sempre col broncio o quel signore che è stato appena tamponato e che sta dando sfogo a tutta la sua rabbia. Stare vicino a una persona arrabbiata sicuramente non è facile e proprio questa difficoltà relazionale porta spesso a condannare questa emozione.

 

Rabbia e rancore si assomigliano ed è quindi molto facile fare di tutta l’erba un fascio. Proprio per questo motivo è doveroso iniziare questa nostra analisi sottolineando come rabbia e rancore siano due fenomeni differenti.

 

La rabbia è una delle emozioni di base individuate da Ekman e Friesen e, proprio come ogni emozione, essa nasconde in sé una funzione adattiva, se ben gestita. Ogni emozione, qualsiasi essa sia, sorveglia uno scopo, svolgendo la funzione di segnalarci se tale scopo sia stato raggiunto, compromesso oppure minacciato (Castelfranchi, Mancini, Miceli, 2002).

Qual è dunque lo scopo sorvegliato dalla rabbia? Proviamo rabbia quando percepiamo di aver subito un danno ingiusto e, grazie alla spinta all’azione che ci fornisce questa emozione, cerchiamo di ristabilire l’equità e ovviare all’ingiustizia subita. Prendiamo, ad esempio, il signore arrabbiato di prima: avvicinandoci a lui potremmo scoprire che ha appena trovato la sua macchina gravemente danneggiata in un parcheggio. Probabilmente qualcuno distratto alla guida ha tamponato la sua vettura, ma non ha lasciato nessun biglietto con i dati dell’assicurazione per poter risarcire il danno. Ecco perché questo signore è molto arrabbiato…forse lo possiamo capire. La rabbia potrebbe indurlo a imprecare al vento, nei casi peggiori, a prendersela con gli oggetti attorno a lui, ma la rabbia potrebbe dargli anche la spinta necessaria per entrare nei negozi vicini e chiedere se qualcuno abbia visto quanto è successo…e magari potrebbe essere così fortunato da trovare qualcuno che si è segnato la targa di chi se n’è andato senza lasciare tracce. Certo se fosse rimasto nel parcheggio a imprecare al vento e a rompere oggetti, tutto questo non sarebbe stato possibile. La rabbia, ben gestita, gli è stata utile e il signore in questione potrà essere risarcito per il danno subito!

 

Adesso immaginiamo il nostro sfortunato signore che, a seguito della scoperta, rimane lì nel parcheggio imprecando al vento e rompendo oggetti.

Una volta che avrà dato sfogo in questo modo alla rabbia, si sentirà forse meglio ma questo torto subito rimarrà invariato. Tornando a casa, dopo un po’di tempo, potrebbe riemergere il ricordo di quanto successo, percependo di nuovo la stessa rabbia di qualche ora prima…ma che fare a quel punto? Magari potrebbe viaggiare con la fantasia, immaginando possibili scenari di vendetta o rivalsa. Potrebbe a quel punto stare meglio, ma il torto subito rimarrà lì, invariato. Immaginiamo che questo processo si ripeta per giorni e giorni: ogni volta che riemergerà il ricordo dell’accaduto, il signore in questione proverà rabbia a cui darà sfogo tramite questi scenari immaginari di vendetta o rivalsa. Nella realtà dei fatti, però, il torto subito resterà sempre e comunque invariato e l’accaduto inizierà a fare parte del passato di questa persona, un passato su cui non è più possibile agire ma che, ogni volta che riemerge, è capace di far sperimentare una rabbia viva a cui non è più possibile dare soluzione concreta.

Questo appena descritto è il processo che porta a sviluppare rancore, che può essere definito come una rabbia incastrata nel passato e che ha perso dunque la sua funzione adattiva. Il passato, in quanto tale, non può più essere modificato dalla persona e questa rabbia senza soluzione, il rancore appunto, induce esclusivamente a provare sofferenza.

Il rancore viene mantenuto da una attività mentale, una forma specifica di pensiero ripetitivo, che prende il nome ruminazione rabbiosa. Si tratta di uno stile di pensiero ricorrente e negativo focalizzato su eventi che hanno a che fare con la percezione di aver subito un’ingiustizia (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017).

La ruminazione rabbiosa assume la forma di un dialogo interno, nel quale sono riscontrabili cinque componenti principali:

  • Rievocazione di esperienze passate, soprattutto torti subiti;
  • Attenzione verso situazioni presenti e verso le proprie emozioni;
  • Elaborazione controfattuale di esperienze passate (es. “Era meglio se parcheggiavo da un’altra parte”);
  • Elaborazione analitica dell’evento, in vista di una sua maggiore comprensione;
  • Elaborazione di ipotetici scenari di risoluzione o vendetta.

L’elaborazione di ipotetici scenari di vendetta è quella componente della ruminazione rabbiosa che alimenta il rancore e che ha caratteristiche prevalentemente immaginative, che conducono ad una sorta di immersione in questo scenario immaginifico, portando la persona a rivivere costantemente le emozioni di rabbia legate alla possibilità di vendicarsi. Appare intuitivo comprendere quale sia una possibile conseguenza negativa della ruminazione rabbiosa: questa, oltre a intensificare e mantenere nel tempo il rancore, può fomentare impulsi reattivi di natura aggressiva, riducendo le capacità di autocontrollo dell’individuo e aumentando il rischio di mettere in atto, anche in modo esplosivo, tali impulsi aggressivi. Prendiamo, come ultimo esempio, sempre il nostro signore che, mesi dopo l’accaduto, si trova in coda sulla tangenziale ed uno scooter lo sorpassa urtandogli lo specchietto dell’auto. Potrebbe a questo punto dar sfogo ad una rabbia intensa, non proporzionata rispetto all’evento presente. Potrebbe riconcorrere il motociclista, fermarlo e aggredirlo, dando sfogo a una rabbia che ha niente o poco a che con quel lieve urto, ma che è invece legata a quell’ingiustizia passata, non più risolvibile e che tanto fa ancora soffrire.

La rabbia sperimentata nella ruminazione rabbiosa può essere eterodiretta, ovvero rivolta verso gli altri, e quindi comportare i rischi appena descritti; ma può anche configurarsi come una rabbia autodiretta, ovvero rivolta a se stessi, e dunque assumere la conformazione di un costante autorimprovero che, se protratto nel tempo, può portare allo sviluppo di vissuti depressivi.

Il rancore potrebbe essere immaginato come una pianta con radici venefiche, che penetrano nella nostra persona, nella nostra storia, rilasciando sostanze nocive e rinnovando ogni volta il dolore di ingiustizie passate e sempre più irrisolvibili.

 

Per approfondimenti:

 

Caselli G., Ruggiero G.M., Sassaroli S. (2017). Rimuginio. Teoria e terapia del pensiero ripetitivo. Raffaello Cortina Editore.

 

Castelfranchi, C.; Mancini, F.; Miceli, M. (2002). Fondamenti di cognitivismo clinico. Bollati Boringhieri, Torino