di

Niccolò Varrucciu

Il termine Suicidalità comprende l’ideazione suicidaria, composta dai pensieri e della pianificazione, e i comportamenti associati al suicidio. La gravità dell’ideazione e la probabilità di realizzazione variano secondo la specificità dei piani di suicidio e del grado dell’intento suicidario.

I comportamenti associati al suicidio includono il suicidio completo, in cui il soggetto concretizza l’effettiva intenzione di morire, i tentativi di suicidio non risuciti e i comportamenti autolesivi.

Nel mondo il suicidio è la dodicesima causa di morte, con cifre che si aggirano intorno alle 800.000 persone annue. Fra i 15 e i 44 anni è fra le tre principali cause di morte insieme agli incidenti stradali e alle malattie cardiovascolari.

Secondo l’organizzazione Mondiale di Sanità questi numeri sono destinati a crescere in modo drammatico, con una previsione di 1.5 milioni di suicidi entro il 2020.

In Italia, considerato un paese a basso rischio di suicidio, i dati parlano di circa 4.000 suicidi annui, con una prevalenza di genere di 4:1.

A livello regionale i tassi di prevalenza risultano particolarmente elevati in Valle D’Aosta, PA di Bolzano e Sardegna.

I dati ufficiali relativi alle forze di Polizia (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Corpo Forestale) sono altrettanto preoccupanti, con il lustro 2009-2014 che ha visto ben 254 suicidi.

I principali metodi di suicidio nel mondo sono rappresentati da armi da fuoco, impiccagione e avvelenamento rispettivamente per maschi e femmine.

Nel nostro Paese invece l’impiccagione è il mezzo più frequentemente usato dagli uomini e la precipitazione per le donne.

Diversa la questione per gli operatori delle Forze di Polizia, dove nell’80% dei casi il suicidio è portato a termine con la pistola d’ordinanza.

Perché il suicidio venga realizzato devono essere presenti la percezione di non appartenenza senza speranza di cambiamento, la convinzione di essere un peso per gli altri e un ridotto timore della sofferenza fisica e della morte. Nelle persone che hanno sviluppato tali credenze si ritrovano spesso vissuti di solitudine e sofferenza riconducibili all’assenza di reciprocità, cura e affetto.

Tra i principali fattori di rischio si ritrovano i conflitti familiari, la mancanza di un impiego o la presenza di gravi malattie, che possono far insorgere la credenza che gli altri staranno meglio senza di loro, con un aumento della percezione di sacrificabilità personale.

Anche se necessario, il desiderio di morire sembra non essere sufficiente a portare a termine il piano suicidario, il quale necessita anche di esperienze di sensibilizzazione che diminuiscano la paura del dolore e della morte.

Da un punto di vista psicopatologico, il suicidio si associa principalmente ai disturbi dell’umore (unipolari e bipolari), all’abuso di sostanze e ai disturbi della condotta.

Rispetto alle disregolazioni dell’asse timico, la perdita di valore personale e di speranza negli altri e nel futuro può far vedere il suicidio come unica risorsa a disposizione per mandare via il dolore sperimentato.

Anche l’abuso di alcool e droghe risulta molto frequente tra coloro che si suicidano o agiscono atti parasuicidari, aumentando il rischio di circa 3 volte rispetto alla popolazione generale.

Dei quadri personologici quello borderline sembrerebbe essere maggiormente correlato al suicidio; le oscillazioni dell’umore, insieme alla marcata impulsività e a una bassa tolleranza alla frustrazione costituirebbero un humus ideale per portare a termine un atto suicidario.

Oltre al profilo personale, nella valutazione del rischio di suicidio è bene tenere in considerazione anche l’ambiente di riferimento. Alcuni studi mostrano come esso sia frequente all’interno d’Istituzioni caratterizzate da elevato grado di controllo sul personale, basso grado di autonomia decisionale e basso grado di libertà di movimento; esempi perfetti sono le Forze di Polizia.

In queste situazioni, lo sradicamento forzato dall’ambiente abituale (famiglia, amici) può essere vissuto come una perdita della propria sicurezza, così come la convivenza forzata con altri, regolata molto rigidamente, può ostacolare l’integrazione. Inoltre, una scarsa predisposizione alla gerarchia, soprattutto se eccessivamente autoritaria, può far sentire l’individuo non considerato e non appartenente alla comunità.

Nelle Istituzioni così rigidamente strutturate il suicidio potrebbe rappresentare la rivendicazione del proprio status di uomo libero e autodeterminato di fronte alle coercizioni subite e ritenute ingiuste, assumendo il significato di una fuga liberatoria.

Se a tale organizzazione vengono sommati anche stress e logoramento cronici, dovuti alla natura stessa delle prestazioni effettuate, caratterizzate da alto rischio per la vita e alto impatto emotivo, otteniamo un ambiente  favorevole al suicidio.

Tra i sintomi riscontrabili in questi operatori vi è la critica continua su tutti e su tutto, un atteggiamento cinico verso gli altri e un’autovalutazione negativa del proprio lavoro.

In queste condizioni psicologiche le prestazioni lavorative calano drasticamente e l’assenteismo aumenta, creando così quel circolo vizioso che conferma l’idea negativa di Sé.

Oltre a ciò, da non sottovalutare sono gli obiettivi di carriera, come il conseguimento del più elevato grado possibile, d’incarichi desiderati e di prestigio e di prerogative d’impiego, come per esempio le sedi di lavoro desiderate.

Ancora più critica è quella situazione in cui la professione, il servizio e la carriera arrivano a rappresentare il nucleo dell’identità personale, per il raggiungimento dei quali la persona ha spesso sacrificato il proprio tempo, la propria salute, gli interessi extra-lavoro, gli affetti, la famiglia, gli amici, ecc…

In caso di frustrazione di queste aspettative, dall’alto valore percepito, il vissuto di fallimento e di crisi personale può diventare insopportabile, tanto da far intravedere il suicidio come l’unica via percorribile.

Parlando d’interventi, così come in fase di valutazione del rischio, è importante considerare sia i determinanti cognitivi che ambientali.

Lo psicoterapeuta potrebbe quindi intervenire sulle credenze di “non appartenenza” e di “essere un peso per gli altri” ma anche sul potenziamento della rete sociale, per esempio con interventi familiari tesi a migliorare i rapporti, soprattutto in momenti di grande difficoltà economica in cui le normali relazioni familiari sono esasperate.

Parallelamente si dovrebbe procedere a un’educazione dei mezzi d’informazione che troppo spesso spettacolarizzano l’evento, fornendo macabri dettagli e presentando il suicidio come la soluzione anziché come problema.

 

Bibliografia:

www.who.int

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Per saperne di più: Canavacci M., Il suicidio nelle forze di polizia, Centro Europeo di Psicologia Investigazione e Criminologia.