di
Silvia Timitilli

LE TANTE FACCE DEL PENSIERO RIPETITIVO

A chi di noi non è mai capitato di commettere un errore in preda alla distrazione perché perso nei propri pensieri? Questo vagabondare della mente si configura come un seguire, quasi indolente, il flusso dei pensieri, una corrente che ci conduce a largo.

Il ritorno al momento presente può essere dovuto a uno stimolo esterno, come un rumore improvviso o lo squillo del telefono. Altre volte, invece, questo ritorno alla realtà può essere più doloroso: la corrente ci ha condotto lontano, fino a ritrovarci nel bel mezzo di una tempesta fatta di emozioni negative. Ci possiamo così trovare in preda a una profonda angoscia o ad una intensa e inspiegabile tristezza, senza neppure sapere come siamo giunti fin lì.

Il fenomeno appena descritto si configura come un flusso di pensieri capaci di distoglierci dal qui ed ora e costituisce un’attività mentale che assume i connotati di una riflessione condotta tra sé e sé su un determinato tema e che assume la forma di un pensiero ripetitivo, che gira attorno al medesimo contenuto mentale come un disco incantato.

Il pensiero ripetitivo, tipico di questi momenti di riflessione, non costituisce di per sé un processo disfunzionale o patogeno: momenti di riflessione sono necessari e utili per ricercare la soluzione ad un problema o per tentare di prendere una decisione. Tale processo cessa di essere funzionale quando la persona risulta bloccata in pensieri che si ripetono senza fine, allontanandosi sempre di più dalla desiderata soluzione.

I pensieri e i temi oggetto di tali riflessioni possono essere diversi tra loro e in base al tema affrontato e all’emozione associata possiamo delineare le diverse sfaccettature di questo variegato fenomeno.

 

Una prima forma assunta da questo fenomeno, e forse la più nota, è il cosiddetto rimuginio o worry, forma studiata per la prima volta da Tom Borkovec nelle sue ricerche sull’insonnia (Borkovec, Ray, Stober, 1998). Il rimuginio può esser definito come un’attività mentale che implica una costruzione ripetuta di ipotetici scenari futuri negativi (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017). Tale attività mentale è associata all’emozione di ansia e, non a caso, il rimuginio costituisce un processo transdiagnostico che caratterizza tutti i disturbi dello spettro ansioso, costituendo la caratteristica principale del disturbo d’ansia generalizzata (DAG).

Le caratteristiche principali del rimuginio ansioso sono:

  • Pensiero rivolto a preoccupazioni o incertezze proiettate nel futuro;
  • Ripetitività, ipotetici problemi e ipotetiche soluzioni sono scandagliati più e più volte, senza giungere ad una definitiva presa di decisione, ma anzi alimentando crescenti dubbi;
  • Contenuto prevalentemente verbale, configurandosi come un dialogo interno caratterizzato più da frasi che da immagini mentali;
  • Astrattezza, gli scenari immaginati si configurano come minacce scarsamente delineate, generiche, astratte e scarsamente probabili.

Alla luce delle caratteristiche sopra elencate, appare piuttosto intuitivo comprendere come questa attività mentale non solo generi ansia, ma al tempo stesso la mantenga, non consentendone il suo naturale e fisiologico decremento.

Come mai allora rimuginiamo? Spesso chi rimugina è convinto che tale attività mentale lo aiuti a risolvere i problemi, riduca la probabilità che accada quanto temuto oppure lo aiuti a prepararsi al peggio. Il rimuginio è quindi una strategia che la persona adotta quando si trova in situazioni considerate come potenzialmente minacciose e dunque difficili da gestire. Nel lungo termine questa strategia di fronteggiamento si può cronicizzare, divenendo maladattiva e inducendo in chi rimugina una percezione di sé come debole, fragile, incapace di affrontare i problemi, accompagnata dalla costante sensazione di essere soggiogato da un futuro pericoloso e ingestibile (Clark & Beck, 2010).

 

Un’altra manifestazione del pensiero ripetitivo è la ruminazione depressiva che condivide con il rimuginio molte caratteristiche quali la ripetitività, l’astrattezza e la valenza negativa. La differenza principale tra queste tipologie di pensiero ripetitivo risiede nel loro oggetto: mentre il rimuginio si focalizza su eventuali minacce future, la ruminazione è incentrata su eventi passati o su stati emotivi presenti. Infatti, mentre il rimuginio viene utilizzato dalla persona per rispondere alla domanda “Cosa succederebbe se…?”, la ruminazione cerca di rispondere a domande come “Perché è successo questo? Perché mi sento così triste? Perché continuo a fare sempre gli stessi errori?”.

Questa tipologia di pensiero ripetitivo è associata all’emozione di tristezza che si attiva quando riteniamo di trovarci dinnanzi a un nostro fallimento personale o quando affrontiamo una perdita, come un lutto, la fine di una relazione significativa o la perdita del lavoro.

La ruminazione depressiva consiste dunque in un’attività mentale analitica, volta a individuare le ragioni di un evento negativo, ricercandole principalmente nella propria natura, nel proprio comportamento o nella propria storia. Si configura, in sintesi, come un costante riesame di situazioni passate (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017).

Anche nel caso della ruminazione depressiva appare piuttosto evidente come questa non solo generi, ma mantenga nel tempo l’emozione di tristezza, risultando un processo associato tipicamente a disturbi depressivi (Clark, Beck, Brown, 1989), ma anche a sintomi da stress post-traumatico (Nolem-Hoeksema, Morrow, 1991).

Come mai la persona rumina? Spesso dietro questa attività mentale, vi è la convinzione che ruminare aiuti a capire se stessi, i propri problemi, i propri sintomi depressivi e soprattutto i propri errori, nella convinzione che, una volta individuati e compresi, non si commetteranno più. La comprensione dei propri errori è sicuramente un passaggio fondamentale nel percorso di crescita individuale, ma tale scoperta deriva dall’esperienza, dal confronto con gli altri e non esclusivamente da un’attività di riflessione su se stessi. La ruminazione depressiva, infatti, si accompagna spesso ad un altro fenomeno, quello dell’evitamento per cui chi rimugina tende a isolarsi per meditare sui problemi, senza intraprendere azioni concrete per risolverli (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017). A sua volta la mancata concreta risoluzione del problema andrà a confermare l’idea di sé come incapace e inadeguato, confermando paradossalmente quell’idea di sé che con la ruminazione si aveva l’obiettivo di mettere in discussione. Il ricorso costante e prolungato nel tempo a questa strategia di gestione aggrava l’intensità dello stato d’animo negativo, inducendo un abbassamento dell’umore e comportando una distorsione negativa della percezione di se stessi e dell’ambiente circostante (Wells, 2009).

 

La ruminazione rabbiosa costituisce un’altra forma assunta dal pensiero ripetitivo. Come suggerisce il termine stesso, questo tipo di attività mentale si associa prevalentemente all’emozione di rabbia e, come illustrato nei due casi precedenti, ne impedisce il normale e fisiologico decremento, mantenendola nel tempo e aumentando il rischio di attuazione di agiti aggressivi.

Nello specifico si tratta di uno stile di pensiero ricorrente e negativo focalizzato su eventi che hanno a che fare con la percezione di aver subito un’ingiustizia (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017). Tale ingiustizia può essere subita in prima persona oppure da altri, l’elemento centrale resta la percezione di un danno ingiusto di cui qualcuno è vittima e da cui scaturisce  l’emozione di rabbia (Castelfranchi, Mancini, Miceli, 2002).

Anche la ruminazione rabbiosa si configura prevalentemente sotto forma di un dialogo interno, nel quale sono riscontrabili cinque componenti principali (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017):

  • Rievocazione di esperienze passate, soprattutto torti subiti;
  • Attenzione verso situazioni presenti e verso le proprie emozioni;
  • Elaborazione controfattuale di esperienze passate (es. “Era meglio se non lo cercavo”);
  • Elaborazione analitica dell’evento, in vista di una sua maggiore comprensione;
  • Elaborazione di ipotetici scenari di risoluzione o vendetta.

L’elaborazione di ipotetici scenari di vendetta è quella componente della ruminazione rabbiosa che ha caratteristiche prevalentemente immaginative, che conducono ad una sorta di immersione in questo scenario immaginario, portando la persona a rivivere costantemente le emozioni di rabbia legate alla prospettiva di vendetta. Appare intuitivo comprendere quale sia una possibile conseguenza negativa della ruminazione rabbiosa: questa, oltre a intensificare e mantenere nel tempo i sentimenti di rabbia, può fomentare impulsi reattivi di natura aggressiva, riducendo le capacità di autocontrollo dell’individuo e aumentando il rischio di agire, anche in modo esplosivo, tali impulsi aggressivi.

La rabbia sperimentata nella ruminazione rabbiosa può essere eterodiretta, ovvero rivolta verso gli altri, e quindi comportare i rischi appena descritti; ma può anche configurarsi come una rabbia autodiretta, ovvero rivolta a se stessi, e dunque assumere la conformazione di un costante autorimprovero che, se protratto nel tempo, può portare allo sviluppo di vissuti depressivi.

 

Infine, una tipologia particolare di pensiero ripetitivo è rappresentata dal ragionamento ossessivo o ruminazione ossessiva. Questa modalità di ragionamento ha una funzione specifica nei pazienti DOC ed è caratterizzata da una struttura particolare.

Il ragionamento ossessivo si configura come una sorta di tribunale interno, in cui da una parte abbiamo l’accusa che dà per scontata la colpevolezza della persona (nello specifico essere responsabile di un danno) e dall’altra parte abbiamo la difesa che cercherà di dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, la sua innocenza (Mancini, 2016). Il ragionamento ossessivo si configura, dunque, come un ragionamento dialettico/dibattimentale, che consta di tre passaggi che si ripetono più e più volte in sequenza:

  1. la persona focalizza l’ipotesi di pericolo, temendo di essere considerato responsabile del suo verificarsi;
  2. cerca la falsificazione dell’ipotesi di pericolo, difendendosi dalle accuse;
  3. valuta insufficiente la forza dell’argomentazione portata in sua difesa, riattivando così l’ipotesi di pericolo.

Questi tre passaggi si alternano in sequenza nella mente del soggetto, conducendo all’effetto paradossale di rendere ancora più veritiera l’accusa, laddove l’obiettivo iniziale della persona era invece dimostrarne l’infondatezza. Questa attività mentale causa sofferenza nel paziente ossessivo, incrementando quei dubbi che invece la persona avrebbe desiderato dissolvere in modo definitivo e dunque mantenendo quell’emozione centrale nel disturbo ossessivo che è il senso di colpa deontologico.

 

Imparare a gestire il pensiero ripetitivo

Il pensiero ripetitivo viene spesso vissuto dalla persona come un fenomeno incontrollabile. Trattandosi, invece, di uno stile di pensiero appreso è possibile lavorare in terapia al fine di sviluppare strategie per interrompere questa attività mentale. Il primo passaggio sarà sviluppare una maggiore consapevolezza del suo funzionamento, in particolare riuscire a riconoscere i segnali di allarme (trigger) che innescano il pensiero ripetitivo, prendere consapevolezza della dannosità di questa attività mentale e apprendere nuove strategie di gestione degli stati emotivi attraverso l’applicazione di interventi cognitivi e/o comportamentali volti a interrompere la catena dei pensieri.

 

Per approfondimenti:

 

Caselli G., Ruggiero G.M., Sassaroli S. (2017). Rimuginio. Teoria e terapia del pensiero ripetitivo. Raffaello Cortina Editore.

 

Mancini F. (2016). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

 

Watkins, E. (2016). Rumination-Focused Cognitive-Behavioral Therapy for Depression. The Guilford Press.