di
Cecilia Lombardo

LAVORARE IN AMBITO SANITARIO DURANTE L’EMERGENZA DA NUOVO CORONAVIRUS

Li vediamo nelle immagini e nei video diffusi dai giornali e telegiornali: medici, infermieri, operatori socio-sanitari e volontari del soccorso bardati completamente dai dispositivi di protezione individuale, li vediamo sui social media, a fine turno, con i segni sul viso lasciati da mascherine e occhiali protettivi. Spesso dal loro profilo chiedono, implorano che tutti rispettiamo le regole del lockdown e del distanziamento sociale, affinché i loro sacrifici, i turni massacranti, la scomodità delle condizioni di lavoro abbiano un senso, non siano vani. Alcuni di loro, purtroppo, hanno perso la vita dopo aver contratto il COVID 19.

A volte vengono descritti come angeli perché mettono al servizio della comunità non solo la loro professionalità, ma anche tutta la loro dedizione al bene comune. Si sentono investiti di una responsabilità grande, quella di fare la differenza all’interno di un turno di lavoro affinché si possa garantire la miglior assistenza ai pazienti. E accettano la sfida. Nel fare questo ne raccolgono diverse altre: convivere con il rischio di contrarre il virus, con il rischio di esserne vettori, e con le limitazioni a cui devono sottoporsi fuori dal lavoro per garantire la sicurezza dei familiari. A ciò, purtroppo, si aggiunge in qualche situazione anche lo stigma di “untori”, sono infatti noti i casi in cui condomini o vicini di casa di medici o infermieri recapitano messaggi anonimi e vili al loro indirizzo. Recente è il caso di un un’infermiera toscana che nella cassetta delle lettere ha trovato un foglio con scritto: “Grazie per il Covid che ci porti tutti i giorni in corte. Ricordati che ci sono anziani e bambini.”

Attacchi gravi questo tipo sono dettati da una paura che si trasforma in rabbia contro il “nemico” ed è probabile che vengano messi in atto

  • se le informazioni avute sulla trasmissione del nuovo coronavirus sono poco chiare o contraddittorie;
  • se non si riesce ad adottare un’altra prospettiva, oltre alla propria di partenza: probabilmente la stessa persona che si scaglia contro l’infermiera che lavora nel reparto di malattie infettive, potrebbe, nel caso in cui una persona a lei cara fosse lì ricoverata in condizioni critiche, ringraziare e benedire il lavoro di tutto il personale;
  • inoltre, sappiamo che è un fenomeno sociale invitabile quello di riversare (ingiustamente) contro qualcuno il malcontento e la frustrazione per una situazione di disagio, e avere il cosiddetto “capro espiatorio”: un elemento esterno a sé a cui attribuire tutta la colpa.

I livelli di stress sono globalmente aumentati nel corso di questa pandemia, e hanno interessato sia il personale sanitario, che la popolazione generale. Il rischio di incorrere in un disagio psicologico (con manifestazione di ansia, insonnia, sintomi somatici, timore di colpa, ecc…)  è cresciuto in questo periodo per gli operatori sanitari, e difficilmente potrebbe essere altrimenti.

Chi lavora in un reparto COVID deve convivere con:

  • Il timore di infettarsi
  • Il timore di fare da tramite al virus, contagiando pazienti ed eventuali familiari
  • In alcuni momenti, possibile carenza di dispositivi di protezione individuale o dotazione di strumenti non idonei
  • La scomodità e il caldo imposti dall’accurata vestizione (camice mono-uso, mascherina, occhiali o visiera protettiva, doppi guanti mono-uso)
  • Le limitazioni ai bisogni fisiologici durante il turno di lavoro: ad esempio, mangiare imporrebbe di ripetere la procedura di vestizione e di smaltimento del materiale potenzialmente infetto un’altra volta
  • La mancanza di informazioni sul virus: molte cose ancora devono essere scoperte sulle terapie, lo sviluppo dell’immunità, ecc…
  • L’assenza di un vaccino, per ora
  • Quando le risorse (come, ad esempio il numero di respiratori nei reparti di terapia intensiva) sono minori del numero di pazienti che ne avrebbero bisogno, la difficilissima scelta su chi deve essere il destinatario della cura “salvavita”

Quest’ultimo punto, ovvero i difficili triage che impongono il dovere di scegliere a chi dare maggiori possibilità di sopravvivenza, espongono l’operatore ad un dilemma morale. Anche se si fa la scelta deontologicamente più corretta, può succedere che il dover decidere della vita e della morte di qualcuno, possa esitare in un danno morale, ovvero un danno alla coscienza e ai valori di un individuo, derivanti da un atto di percepita trasgressione morale. Le conseguenze della propria scelta possono produrre profonda colpa e vergogna, e in alcuni casi anche un senso di tradimento, rabbia e profondo ‘disorientamento morale’. Questo tipo di situazione potrebbe portare anche ad un disturbo da stress post-traumatico. La traumatizzazione può coinvolgere anche chi non prende decisioni così delicate, ma vi assiste, è il caso della traumatizzazione vicaria.

Anche gli operatori che non sono impegnati in un’unità operativa COVID sono soggetti ad un aumento della quota di stress:

  • Lavorano in un ambiente, anche se non ad alto rischio, comunque ricettacolo di virus e batteri, tra cui il SARS-CoV-2, quindi possono essere soggetti ad una più alta probabilità di essere infettati, rispetto alla popolazione generale
  • A causa della riorganizzazione delle strutture sanitarie imposta dalla pandemia, possono aver perso il loro ruolo e non svolgere il loro lavoro abituale, per esempio alcuni infermieri divengono addetti al check point, i punti in ingresso della struttura sanitaria in cui si fa attività di filtro. Può succedere che ci si ritrovi, da infermiere abituato a gestire pazienti complessi, a misurare la temperatura ad ogni persona che entra nell’edificio e ad erogare gel disinfettante per le mani. Questo momentaneo demansionamento può incidere sul senso di auto-efficacia e sul livello di benessere lavorativo del personale.

Paradossalmente uno studio (Li Z. et al, 2020) attesta che gli operatori che combattono in prima linea contro la malattia da coronavirus (COVID 19) riportano minori livelli di traumatizzazione vicaria rispetto agli operatori sanitari delle “retrovie”, e minori livelli di traumatizzazione anche della popolazione generale. La ricerca è stata effettuata in Cina, non si sa, quindi, quindi se tali risultati possono essere generalizzati ad altre nazioni e ad altre fasi della lotta contro il nuovo coronavirus. Interessante, comunque, è considerare che al momento sono poche le richieste di supporto psicologico da parte di operatori sanitari. Esistono “help lines” appositamente create (linee telefoniche per il sostegno psicologico gratuitamente messe a disposizione per il personale sanitario), ma al momento sono sotto-utilizzate. Anche questo dato sembra contro-intuitivo, ma potrebbe essere dovuto a diversi fattori:

  • Un’ottima tenuta dello stress, ovvero essere dotati di “resilienza”
  • La difficoltà ad ammettere di aver bisogno di aiuto, per il timore che questo simboleggi una debolezza inaccettabile
  • L’essere in una “fase eroica”, avere ancora energie da spendere e l’entusiasmo che deriva dal sentire che il proprio agire è utile ed essenziale per la collettività.

Nella risposta ad eventi critici si attivano delle risorse nell’individuo, è naturale, però, che tali risorse tendano ad esaurirsi nel tempo, se non debitamente “ricaricate” da opportunità di riposo e da una buona qualità di vita. Si potrebbe infatti assistere, in una fase successiva, meno emergenziale, ai postumi dell’attuale sovraccarico emotivo.

È bene non sottovalutare la propria sofferenza, perché spesso un intervento precoce, alle prime avvisaglie di malessere, può essere determinante nel favorire una buona elaborazione del vissuto doloroso e può attivare i mezzi per far fronte al disagio prima che si strutturi in un circolo vizioso.

Bibliografia

  • Li Zhenyu et al., “Vicarious traumatization in the general public, members, and non-members of medical teams aiding in COVID-19 control”. Brain, Behavior, and Immunity, https://doi.org/10.1016/j.bbi.2020.03.007 available on line 10 March 2020, correct proof.
  • The Lancet. Editorial. “COVID-19: protecting health-care workers”. 2020 21-27 March; 395(10228): 922.Published online 2020, Mar 19. doi: 1016/S0140-6736(20)30644-9
  • Montemurro N. “The emotional impact of COVID-19: From medical staff to common people”. Brain, Behavior, Immun 2020, Mar 30 Epub ahead of print. doi: 10.1016/j.bbi.2020.03.032
  • Palmonari A., Cavazza N., Rubini M. “Psicologia sociale”. Edizioni “Il Mulino”, Bologna, 2002.
  • Wu Peter E., Styra Rima and Gold Wayne L. “Mitigating the psychological effects of COVID-19 on health care workers”. Canadian Medical Association Journal. April 27, 2020 192 (17) E459-E460; DOI: https://doi.org/10.1503/cmaj.200519

Sitografia